Il capolavoro di Strauss in un prestigioso allestimento di Yannis Kokkos dominato dalla Klytämnestra di Agnes Baltsa
di Stefano Martinella foto © GNO / Andreas Simopoulos
Da poco più di un mese l’Opera Nazionale di Atene ha trovato una nuova sede all’interno del Centro Culturale della Fondazione Stravros Niarcos. L’enorme complesso progettato dallo studio di Renzo Piano ospita nei suoi duecentodiecimila metri quadrati anche un parco con attrezzature sportive e la Biblioteca Nazionale e sorge nel quartiere di Kallithea, a una manciata di chilometri dal centro della città e a pochi metri dalle rive dell’Egeo; è sormontato da un’immensa terrazza, aperta su tutti i lati, che permette di abbracciare con lo sguardo il Pireo da una parte e l’Acropoli dall’altra. La nuova sala teatrale, capace di millequattrocento spettatori, è moderna e funzionale nonché – varrà la pena sottolinearlo – esteticamente molto bella, caratterizzata dal contrasto tra il legno dei pavimenti e dei pannelli che decorano i parapetti delle quattro gallerie e il rosso delle poltrone e del rivestimento delle pareti.
Tra i principali motivi di interesse di questa produzione spiccava sicuramente la presenza di Agnes Baltsa nella parte di Klytämnestra. Negli ultimi anni le apparizioni del mezzosoprano greco si vanno sempre più rarefacendo (l’ultima, nel medesimo ruolo, risaliva al settembre 2015)
Per l’inaugurazione di questo nuovo spazio, stabilita la volontà di allestire un’opera di soggetto greco, l’istituzione musicale ha scelto Elektra di Richard Strauss, curiosamente mai presentata dall’Opera Nazionale nei suoi quasi ottant’anni di storia. La scelta, di per sé già motivata dal trovarsi di fronte a uno dei capisaldi della storia del teatro musicale, consente forse anche di riflettere una volta di più sul significato e sul profondo valore che le vicende del mito arcaico, codificate nella loro forma scritta dalla poesia epica prima e da quella tragica poi, hanno avuto e continuano ad avere nella storia della civiltà occidentale, della quale costituiscono uno dei pilastri fondanti. D’altra parte già Hugo von Hofmannsthal, nell’approntare il libretto per Strauss, aveva offerto una sorta di interpretazione moderna del mito antico e aveva per questa ragione scelto di rifarsi all’Elettra di Sofocle, i cui personaggi appaiono mossi e tormentati da quelle stesse idee e ossessioni che occupavano la società dei primi anni nel Novecento, nei quali le vicende ancestrali del mito venivano analizzate da Sigmund Freud o Carl Gustav Jung.
Tra i principali motivi di interesse di questa produzione spiccava sicuramente la presenza di Agnes Baltsa nella parte di Klytämnestra. Negli ultimi anni le apparizioni del mezzosoprano greco si vanno sempre più rarefacendo (l’ultima, nel medesimo ruolo, risaliva al settembre 2015): ed è un vero peccato, perché la sua interpretazione è sotto più aspetti magistrale. La parte, piuttosto grave e a tratti decisamente contraltile, è risolta in larga misura con il ricorso al registro di petto, utilizzato per sostenere il declamato tagliente e affilato della regina di Micene, tormentata dagli incubi che ogni notte la privano del sonno e del riposo: il tutto è retto da tenuta vocale che ancora impressiona, da un accento sempre perfettamente adeguato e da una dizione esemplare. Scontato forse elogiare la presenza scenica della Baltsa, che disegna una Klytämnestra regale ed elegante, una donna ancora nel pieno del vigore e in grado di ostentare una notevole avvenenza fisica, sideralmente lontana dalle grottesche megere nelle quali tante volte è stato trasformato il suo personaggio.
Al suo fianco, nelle vesti di Elektra, Sabine Hogrefe. Il soprano tedesco non possiede appieno la solidità vocale richiesta alla protagonista, ma è comunque in grado di risolvere una parte che di fatto è sostanzialmente disumana, che insiste su tutta la tessitura della corda spaziando dal registro grave a quello più acuto e che costringe l’interprete a non abbandonare mai la scena. Dal punto di vista scenico, la Hogrefe tratteggia un’Elektra reietta e quasi regredita a uno stato primordiale, che non potendo condividere il tetto con gli assassini del padre si è come posta ai margini della società, in attesa che il ritorno del fratello punisca il delitto e ristabilisca l’ordine naturale.
Molto valida è invece la Chrysothemis di Gun-Brit Barkmin, interprete raffinata specie negli slanci lirici del duetto tra le due sorelle, come altrettanto interessante è Frank van Aken nei panni di Orest. Bravi Dimitris Tiliakos quale Ägisth e la schiera dei comprimari.
I complessi dell’Opera Nazionale riescono con efficacia e successo, al di là di qualche imprecisione, a rendere i colori e le variegate sfaccettature che costituiscono la partitura. Di notevole impatto la lettura del direttore Vassilis Christopoulos, in grado di mantenere sempre viva la tensione del dramma grazie a un ritmo serrato che tuttavia non rinuncia a momenti di abbandono più lirico, specie nella scena dell’agnizione, quando finalmente Elektra riconosce l’atteso fratello incaricato di compiere la vendetta e creduto morto. Particolarmente riuscito e travolgente il grandioso e potente finale.
All’apertura del sipario appare subito chiara la definizione di due diversi spazi immaginata da Yannis Kokkos, chiamato a dirigere l’allestimento. Quello del proscenio, posto più in basso, è lo spazio di Elektra, nel quale la protagonista può vivere la sua condizione di emarginata, libera di abbandonarsi alla rievocazione dell’uccisione del padre e autorizzata ad assumere una posizione dominante e sprezzante nei confronti della madre. Sul fondo della scena, soprelevato, il resto del mondo, ovvero la reggia degli Atridi, rappresentata da una imponente scalinata dorata, chiusa da una grata, che indica l’ingresso del palazzo. Tra gli altri, pochi, elementi presenti sulla scena è poi un grande rilievo di pietra che raffigura un corpo dilaniato, una sorta di simulacro che rievoca di continuo alla mente di Elektra il delitto e alimenta costantemente il suo desiderio di vendetta che muove l’intero dramma.