Tra maschera, mito universale e luogo comune. Una lettura anti moderna del balletto di Stravinskji
di Silvia d’Anzelmo disegni di Pablo Picasso
A cento anni dal viaggio di Igor Stravinskij e Pablo Picasso nella città partenopea, il Teatro San Carlo mette in scena il balletto in un atto con canto Pulcinella: quell’epifania che permise al compositore russo di procedere lungo nuove strade con uno “sguardo all’indietro” e l’altro “allo specchio”. Nato dal fascino contradditorio della città di Napoli, lo spettacolo di Stravinskij, Picasso e Massine presenta Pulcinella come maschera dal valore universale, capace di condensare in sé l’elemento popolare e la forte ambiguità della realtà contemporanea.
Date queste premesse, riappropriarsi di un’opera come Pulcinella dall’aspetto apparentemente immediato e leggero dietro la quale si maschera una complessità stratificata, è sicuramente un’operazione difficile e delicata. Andiamo per ordine partendo dal coreografo Francesco Nappa che ha dato una rilettura complessiva di Pulcinella non più marionetta bensì uomo. Nelle note introduttive allo spettacolo si legge: “Pulcinella, non solo la solita marionetta buffa e goffa. Moderno, come Napoli e la sua attualità, un Pulcinella della Napoli di oggi. Prezioso e malizioso”. Il ‘guaio’ è che per Stravinskij, Picasso e molti altri artisti novecenteschi, la marionetta non è buffa né goffa e soprattutto non è opposta all’umanità ma è l’uomo vero per eccellenza, l’uomo moderno. La tendenza a riprendere le maschere della Commedia dell’Arte fa parte della non-espressività programmatica tipica del neoclassicismo, elemento totalmente ignorato da Nappa che vuole fare di Pulcinella un banalissimo uomo innamorato. Il coreografo intende la maschera come una protezione, un modo per nascondersi riducendone la simbologia all’aspetto più palese e superficiale, travisando completamente la significazione originaria dell’opera. Per gli artisti novecenteschi la maschera è tutt’altro che protezione, è rivelazione che permette di accedere alla realtà divenuta ormai troppo complessa e ambigua, oserei dire grottesca. Per usare le parole di un contemporaneo di Stravinskij, il compositore Gian Francesco Malipiero: “La maschera […] è quella che sopprimendo ogni contatto con la realtà, perché la nasconde, finisce per favorire la verità”.
Il problema, però, non è nella rivisitazione o nella risemantizzazione, operazioni vitali e necessarie, ma nel risultato ottenuto in questo caso: una semplificazione insistita che toglie forza al lavoro originario. Procedendo in direzione totalmente opposta, il Pulcinella di Nappa perde il suo carattere universale per essere ricondotto a viva forza in una Napoli superstiziosa legata all’immaginario comune più gretto. La sua coreografia, infatti, alterna la contemporaneità alla mimesi diretta della gestualità napoletana. Il corpo di ballo, così come gli interpreti principali si affannano sul palcoscenico del San Carlo senza un vero entusiasmo, senza una vera energia.
La scena lineare, asciutta, a fondo scuro insiste ancora sugli elementi tipici della città partenopea, la maschera e il cornetto, tratteggiando stancamente la solita immagine di Napoli. L’intento di Lello Esposito è quello di “reinventare la tradizione, tenersi saldamente alla propria identità, ma infonderle un nuovo respiro fatto di ricerca, vitalità, dinamismo” la riuscita, a mio avviso, totalmente opposta. Tutto è così come appare: cornetto e maschera non hanno la forza ambigua del simbolo, sono involucri vuoti. Stessa cosa vale per i costumi di Giusi Giustino che riduce all’osso i rimandi alla marionetta preferendo la stilizzazione anonima.
La parte peggiore dello spettacolo, però, è stata la musica tenuta in ombra, trattata come se non dovesse infastidire. La direzione di Maurizio Agostini è stata sciatta e l’orchestra del teatro scialba, incapace di rendere la prorompente vitalità ritmica della riscrittura stravinskijana. Quella dissimulazione del settecento attraverso l’orchestrazione novecentesca fatta di asimmetrie, ripetizioni, “note sbagliate” messe al posto giusto: tutto diventa incolore e piatto per lasciare il posto agli inserti elettronici che servono alla continuità e alla comprensibilità di un’azione che lineare non è perché vive nell’allusione simbolica, non nella mimesi del reale. L’effetto è quello di uno schiaffo in pieno viso.
Insomma uno spettacolo ben al di sotto delle aspettative per un teatro d’opera come il San Carlo che, solitamente, viaggia su ben altri binari. Torno a dire che il problema non è nell’operazione di “avvicinamento” e risemantizzazione: lo stesso Stravinskij orchestrò spezzoni di partiture del settecento per mettere in piedi Pulcinella! Il problema è nel bisogno estremo di immediatezza che finisce per rendere tutto banale mentre una semplicità dal carattere ermetico avrebbe permesso una lettura stratificata rivolgendosi con volti differenti a un pubblico eterogeneo.