Riccardo Chailly porta per la prima volta alla Scala la Messa con cui tredici compositori italiani omaggiarono il grande compositore di Pesaro un anno dalla scomparsa
di Luca Chierici
Un lavoro oltre che complesso (per la sommatoria di componenti eterogenee), complicato, a causa di una genesi incerta e di una non perfetta conduzione del progetto fu la “Messa per Rossini” che avrebbe dovuto riunire i maggiori compositori italiani dell’epoca nel tentativo di costruire un grandioso Requiem in omaggio all’illustre compositore appena scomparso (1868). Come spesso accade per le cose italiane, quasi una maledizione, anche in questo frangente la sorte si accanì contro il progetto stesso, pure benedetto dalla supervisione di Giuseppe Verdi. Innanzitutto vi fu una vera e propria Commissione che scelse i possibili candidati secondo criteri che oggi chiameremmo di seniority, poi le voci che davano la presenza di Verdi come possibile ostacolo alle scelte autonome della Commissione, poi ancora la rinuncia alla partecipazione, per diversi motivi, da parte di Mercadante e Petrella, nomi illustri che probabilmente avrebbero contribuito in maniera sostanziale al lavoro. La Messa avrebbe dovuto essere eseguita a Bologna, in San Petronio, il 13 novembre del 1869, cosa che non avvenne anche a causa dell’opposizione di un impresario, Scalaberni, e poi a Milano l’anno successivo sotto la direzione di Angelo Mariani, sgradito a Verdi. Non se ne fece più nulla e bisognerà attendere l’11 settembre del 1988, quasi centovent’anni dopo, perché il lavoro venga finalmente svelato al pubblico, in quel di Stoccarda, grazie alla cooperazione tra l’Istituto di studi verdiani e l’Europaeisches Musikfest.
L’impegno profuso da Verdi per la composizione del finale, il “Libera me”, e per il controllo di un percorso drammaturgico-tonale che normalizzasse i contributi degli altri dodici compositori coinvolti, non andò tuttavia perduto ed è forse a causa di questa messa parzialmente abortita che i posteri poterono godere di un nuovo, magnifico Requiem, scritto per intero da Verdi e dedicato questa volta ad Alessandro Manzoni.
L’esecuzione di questa Messa a Rossini non è certo nuova, o almeno lo è per la Scala, teatro che spesso ci mette un po’ di tempo per digerire certi fatti storici sia pure “marginali”. Alla prima esecuzione assoluta di Stoccarda sotto la direzione di Helmut Rilling, ne seguirono altre ad opera dello stesso direttore (ad esempio a Parma, nello stesso 1988, a New York l’anno dopo e al Rheingau Festival nel 2001) mentre Diego Fasolis la presentò a Lugano nel 1992. Ma occorreva un direttore con le antenne puntate su tutto il repertorio ottocentesco italiano per riprendere oggi alla Scala questo lavoro a suo modo affascinante e bisogna riconoscere che Chailly ha saputo soprattutto convogliare il messaggio sottolineando, se non una omogeneità scrittura, almeno una identità di ispirazione. Allo stesso tempo Chailly ha messo in luce le peculiarità (e non sono poche) dei singoli contributi stilistici e della forma ancora non del tutto risolta del “finale” verdiano. Accanto a lui si è impegnato prima di tutti il coro, che a volte ha una parte del tutto predominante ed esclusiva, e una compagnia di canto nella quale spiccava senz’ombra di dubbio lo straordinario tenore Giorgio Berrugi. Tutti applauditi a lungo però, da Bruno Casoni a Maria José Siri, impegnata tra le altre cose col mezzosoprano Veronica Simeoni nel difficile duetto del “Quid sum miser” di Cagnoni. E ancora il baritono Simone Piazzola, protagonista nel “Tuba mirum” e il basso Riccardo Zanellato nel “Confutatis”.
L’impressione generale di chi ascoltò comunque le edizioni del 1988, è ancora quella di un patchwork molto interessante e reso oggi con una chiarezza straordinaria e una cura del suono tutta particolare. Verdi avrebbe voluto che la Messa non fosse eseguita che di rado, forse in occasione di qualche particolare anniversario rossiniano, e non sappiamo se quest’opera rientrerà da domani nei programmi di routine. Ma anche se così non fosse, la fine rovinosa del progetto iniziale fu di stimolo, lo ripetiamo, per la composizione del Requiem verdiano. E questo ci consola dei veri o presunti problemi musicologici che gravitarono attorno a questo progetto collettivo.