di Luca Chierici foto © Holger Talinski
L’assenza totale di atteggiamenti divistici, cui si aggiunge una attenzione concentrata esclusivamente sui testi da lui presentati e un controllo totale del mezzo pianistico, fanno di Leif Ove Andsnes, classe 1970, un esemplare più unico che raro nell’affollatissimo panorama odierno dei concertisti. Andsnes, di origini norvegesi , si è imposto sulla scena internazionale piuttosto timidamente già a partire dalla fine degli anni Ottanta. Probabilmente a causa del mancato lancio mediatico a seguito della vittoria di un importante concorso internazionale – e in questo ci ricorda in parte il caso di Evgenji Kissin – il pianista norvegese si conquistò lentamente la fiducia del pubblico e della critica presentandosi attraverso scelte non scontate (ad esempio il Ludus Tonalis di Hindemith e una cospicua scelta di pagine del proprio connazionale Edward Grieg) e proseguendo con un repertorio classico che comprendeva pochi ma significativi elementi tratti dalle sonate di Beethoven, Chopin, Schubert, pezzi sparsi di Schumann e Debussy, i Quadri di Musorgskij, una manciata di Concerti importanti con orchestra, qualche interessante sconfinamento nel repertorio contemporaneo (Kurtag, Lutoslawski, Dalbavie, Sorensen). Una carriera costruita con pazienza e determinazione, senza mai rinunciare al proprio istinto di musicista e senza soccombere alle richieste del marketing discografico. Nei primi anni Duemila era facile incontrarlo a Verbier o alla Roque d’Antheron accanto a solisti come Heinrich Schiff, Sabine Meyer, Michael Collins, Christian Tetzlaff impegnato nel repertorio cameristico di Brahms o di Schubert e Schumann. A Milano Andsnes aveva suonato ben tre volte su invito della Società del Quartetto fin dal millenovecentonovantanove, era apparso alla Scala nel duemilasei con Dudamel nel K 453 di Mozart, e il recital dell’altra sera ha confermato il raggiungimento della splendida maturità di un artista prezioso.
Andsnes è un pianista che guadagna molto ad essere ascoltato dal vivo, perché la sua naturale pudicizia e assenza della ricerca di effetti che rendevano talvolta un poco algide certe sue esecuzioni in disco lasciano lo spazio a un più coinvolgente rapporto con il pubblico, alla libera manifestazione di un pensiero pur veicolato attraverso un pianismo sempre estremamente controllato. Oggi alle soglie dei cinquant’anni Andsnes è un artista completo, che utilizza una tecnica pressoché perfetta, una grande cura del suono (che si è ulteriormente irrobustito) come piattaforma per comunicare il proprio punto di vista nei confronti di un repertorio che è rimasto sì relativamente limitato, ma la cui estensione procede sempre attraverso scelte assai personali. Ad Andsnes non interessano le “integrali”, le analisi del repertorio in base a comparti cronologici: quello che conta è pur sempre il proprio rapporto con determinati elementi della letteratura musicale a lui particolarmente congeniali. La sua è sempre una lettura che tiene conto della tradizione e della possibile analisi a più livelli del testo, ma che tende a far risaltare maggiormente il lato comunicativo, di accesso più immediato, appoggiandosi a un cantabile intenso ma mai semplicistico. Il contrario, dunque, di quanto fanno molti artisti che sembrano più interessati a vivisezionare una pagina musicale nascondendosi dietro a una presunta oggettività che spesso non approda a un esito concertistico davvero convincente.
L’impaginato del recital dell’altra sera al Quartetto di Milano non aveva pretese nell’imporre all’ascoltatore un percorso particolarmente ricercato, se si eccettua il legame tra l’omaggio a Schubert composto da Widmann e i Drei Klavierstücke D 946. Parte del programma si era già ascoltato negli appuntamenti precedenti, ma questo fa purtroppo parte di un costume che oramai da molti anni affligge il panorama musicale rendendo tra l’altro praticamente inutili gli spostamenti per andare ad ascoltare elementi diversi da quelli presentati nella propria città. Una volta il critico o l’appassionato di musica dovevano spesso sobbarcarsi lunghe trasferte per assistere a un concerto di un solista o di un direttore di grido in un particolare tipo di repertorio. Oggi la globalizzazione, che ha colpito anche i programmi artistici, ha reso tutto molto più facile, ed è sufficiente risiedere in un grande centro per attendere, come sulle rive del Gange, che prima o poi i propri beniamini giungano da chissà dove, portandosi dietro un programma standard. E poi, se proprio si perde qualcosa, c’è sempre youtube.
Se Grieg aveva contraddistinto le scelte campanilistiche del più giovane Andsnes, oggi è al finlandese Sibelius che il pianista si rivolge per ribadire il proprio amore per la musica scritta più genericamente nei territori scandinavi. Il Sibelius pianistico, pur colpevole di una non trascurabile lontananza dagli umori della musica contemporanea, è terreno fertile per il solista legato a un certo tipo di descrittivismo legato a un linguaggio strumentale indubbiamente affascinante. E se non vi sono attualmente pianisti che osano dedicare un’intera serata alla numerosa produzione del musicista finlandese, un plauso va indirizzato ad Andsnes per averci fatto ascoltare una scelta pure ridotta di questi piccoli gioielli. Il pianista ci è poi sembrato più interessato alle sonorità che alla costruzione formale dei brevi pezzi di Widmann ispirati a Schubert, mentre l’esecuzione dei Drei Klavierstücke del musicista viennese è stata esemplare per chiarezza, resa delle parti cantabili e soprattutto individuazione del filo narrativo presente in queste pagine schubertiane del periodo estremo. Ammirevole ancora per l’individuazione dello spunto narrativo è stata l’esecuzione della famosa “tempesta” beethoveniana, mentre sonorità affascinanti hanno contraddistinto il Notturno op.62 n.1 di Chopin, seguito dall’intensissima quarta Ballata dove ad Andsnes è piaciuto replicare nell’incipit un curioso effetto di accentuazione di voci interne che fu prerogativa del genio pianistico di Josef Hofmann. Due i bis, con un Improvviso dall’op.5 di Sibelius e la famosissima prima Ballata di Chopin. Pubblico numeroso, partecipe (anche nell’uso improprio dei cellulari), alla fine entusiasta.
Andsnes appartiene a quella classe di pianisti di mezza età che offrono un buon prodotto in tutto il repertorio senza raggiungere mai, però, l’eccellenza, un po’ come Paul Lewis. Il suo pianismo, sorretto da un’ottima tecnica non trascendentale, è all’insegna della moderazione che offre certamente una cifra interpretativa di largo spettro ma che alla fine appare un po’ ripetitiva e in ultima analisi poco soddisfacente. Certamente si trova a suo agio con un compositore come Sibelius con cui condivide la comune matrice scandinava e di buona qualità il suo Schubert proprio per quelle caratteristiche che sono il suo limite. Ma “la tempesta”di Beethoven manca di quella drammaticità che ne è il motivo conduttore e piuttosto convenzionale è l’interpretazione della quarta ballata di Chopin. Con grande esperienza e mestiere smussa i passaggi tecnici più impervi non senza qualche imperfezione.