di Luca Chierici
L’attesa per l’inaugurazione di stagione alla Scala è come al solito febbrile e finisce per coinvolgere, oltre al pubblico, gli addetti ai lavori, contagiati dall’ansia creativa dei protagonisti dell’evento musicale e di tutte le persone che si spendono per la riuscita ottimale della serata, dal Sovrintendente all’usciere o all’ultimo macchinista. Durante la conferenza stampa di presentazione di questo Andrea Chénier particolare interesse ha riscosso la dichiarazione di Riccardo Chailly relativa alla necessità di eseguire l’opera evitando le fermate che consentano gli applausi a scena aperta rivolti ai cantanti. Scrupolo filologico o timore di contestazioni? Questa è stata la prima impressione che serpeggiava tra il pubblico presente e che troverà una conferma o una smentita solamente nel momento del 7 Dicembre.
Una giustificazione musicale, secondo il direttore, va cercata nel carattere quasi neo-wagneriano della scrittura di Giordano, che richiederebbe quindi una esecuzione senza cesure. Chailly ha ancora sottolineato l’inopportunità di un intervallo così lungo (trentadue anni) che separa questa edizione dall’allestimento precedente, da lui stesso diretto. Osservazione che giustifica oltretutto la scelta da parte della direzione artistica di intensificare la messa in scena di opere del periodo verista, a cominciare dalla Francesca da Rimini che ritornerà alla Scala più avanti nel corso di questa stagione. Chailly ha pure ricordato come la lontananza nel tempo della precedente edizione dello Chénier gli abbia permesso di rileggere ex-novo la partitura, anche in funzione della vocalità e della personalità dei cantanti impegnati in questa ripresa del titolo. Certo non si può oggi pensare di ripetere momenti gloriosi centrati sulla presenza di nomi entrati nel mito come Gigli, Del Monaco, la Tebaldi e la Callas, Galeffi o Cappuccilli. Altri tempi, altre voci e un modo di impostare lo spettacolo che soprattutto su queste ultime faceva perno. E in secondo luogo sui direttori: e qui Chailly ha ricordato con una certa dose di commozione il nome di Victor De Sabata.
L’intervento di Mario Martone è stato molto interessante perché ha chiarito le scelte di fondo del regista, tutte condivisibili. Andrea Chénier come esempio delle contraddizioni insite in tutti gli eventi rivoluzionari (tra slancio vitale che li anima ed elementi di crisi che ne inficiano i valori e gli scopi iniziali) dunque, e opera in cui l’elemento storico-sociale va di pari passo con quello sentimentale e privato della storia d’amore tra il poeta e Maddalena. Martone ha anche sottolineato la vicinanza tra questi temi e i propri lavori teatrali precedenti (Noi credevamo e La morte di Danton) e ha ricordato come il primo soggiorno milanese di Giordano si fosse svolto all’ombra di un magazzino di statue del Cimitero Monumentale, visione che egli ha voluto riprendere con la scenografa Margherita Palli. Meno interessanti le dichiarazioni dei protagonisti vocali, chiaramente emozionati per il debutto scaligero (Yusif Eyazov e, per il 7 Dicembre, Luca Salsi). Ma per costoro il vero banco di prova sarà il palcoscenico e il pubblico della “prima”.