di Alberto Bosco foto © Javier del Real
Veramente lodevole l’impegno con cui il Teatro Real di Madrid ha curato questo nuovo allestimento di una delle opere meno conosciute di Britten, Gloriana, scritta nel 1953 in occasione delle celebrazioni per la salita al trono della regina Elisabetta II e da allora mai entrata veramente in repertorio, a differenza delle altre opere della maturità di Britten. L’impegno del Real rispecchia un autentico interesse verso le opere del compositore britannico, presentate negli ultimi anni con regolarità nel cartellone della città e sempre in allestimenti di alto livello. Ancora viva nella memoria del pubblico è, infatti, la splendida e giustamente premiata produzione del Billy Budd della scorsa stagione, che ha rilanciato l’interesse per questo titolo un po’ dimenticato. In fondo l’aspettativa era che succedesse qualcosa di simile anche quest’anno con Gloriana, presentata con un cast e una regia cui non si poteva chiedere di più: Anna Caterina Antonacci, nei panni della protagonista, che campeggia in quest’opera su tutti gli altri personaggi, David McVicar, regista attento alla ricostruzione d’epoca e al simbolismo cosmico del potere regale, a cui vanno aggiunte l’appassionata direzione di Ivor Bolton e l’ottima prestazione del coro, impegnato in pagine di ardua esecuzione. Sfortunatamente, e non per colpa degli artisti né della messa in scena, l’impressione è che difficilmente quest’opera possa entrare alla pari nel novero delle grandi riuscite teatrali di Britten.
Si è soliti attribuire la mancata circolazione di quest’opera al fiasco della sua prima rappresentazione, dovuto a incomprensioni sul vero messaggio dell’opera: da un lato coloro che si aspettavano un panegirico della corona inglese rimasero delusi dal ritratto sfaccettato, tormentato e dolente di Elisabetta I, dall’altro ci fu invece chi vide solo le intenzioni celebrative del lavoro, che più di ogni altra di Britten si propone in forma esplicita di dar vita un’opera autenticamente nazionale. In realtà, l’opera stessa, al cui centro è la vicenda di Roberto Devereux, favorito della regina e poi condannato a morte per ragion di stato, non ha una chiara fisionomia drammaturgica e i bei momenti musicali di cui è ricca non riescono ad articolarsi in uno spettacolo capace di tenere desta l’attenzione e la partecipazione degli ascoltatori in modo continuo. Così, per buona parte dello spettacolo ci si sente un po’ come Devereux, impazienti e pieni di insofferenza per le lentezze di corte e i protocolli, aspettando invano qualcosa che cambi la situazione. Insomma, traspaiono troppo le ragioni che hanno spinto Britten a comporre l’opera, in parte discordanti tra loro e non sufficientemente potenti da lasciar perdere le loro tracce ed amalgamarsi in un’opera viva al cento per cento.
Infatti, come s’è detto, Britten fu animato dalla sfida deliberatamente assunta di voler scrivere la prima opera in tutto e per tutto “inglese”, il che spiega perché egli, non certo un rappresentante dell’establishment conservatore, si sia lasciato tentare dalle circostanze esteriori dell’incoronazione della regina. E si spiega così anche il carattere anti-operistico e ridondante dei primi due atti dell’opera, dove è esposto un campionario di tutto quanto è tipicamente inglese in musica, in costante riferimento all’epoca elisabettiana o di Purcell: Pavane e Gagliarde, madrigali amorosi, musica pomposa ed encomiastica, interludi corali, persino un vero e proprio masque mitologico e arcaizzante, virtuosisticamente realizzato con il solo accompagnamento musicale di un coro a cappella. Tutte pagine scritte, come si può immaginare, con la consueta maestria da Britten, ma, come si può altrettanto facilmente immaginare, tutte pagine, tolta la scena del ballo che chiude l’atto secondo, che non hanno alcuna presa drammaturgica e si giustificherebbero più in una cantata celebrativa, che in un’opera.
Un primo paradosso, quindi, grava su quest’opera, cioè che le cose più curate musicalmente e, in fondo, anche ispirate (ad esempio, i cori a chiusura di scena in lode alla regina, non hanno nulla di falso, e sono tra le pagine più autentiche dell’opera), si cimentano con questioni ininfluenti al decorso del dramma e francamente poco avvincenti, almeno per chi non sia suddito inglese e goda nella semplice ricostruzione di un ambiente di corte seicentesco. A questo, se ne aggiunge un secondo: che il dramma su cui si basa l’opera e che potrebbe suscitare il nostro interesse, l’amore impossibile e sfortunato della regina per Devereux e, per estensione, il conflitto tra ragioni del cuore e dovere di stato, non sembra toccare le corde più sensibili del compositore. Per cui, quando Elisabetta, esasperata dalle insistenze dell’ipocrita e ambiziosa sorella di Devereux, firma d’istinto la condanna a morte per il suo protetto, nulla ci fa sobbalzare dalla sedia e restiamo indifferenti, perché nel corso dell’opera questo amore non ha avuto un trattamento musicale tale da farcelo risultare presente come una realtà sentimentale determinante. Altrettanto in sordina, per esempio, rimane il tema dei conflitti storici in atto: sia nella forma dei dissidi interni alla corte, che qui sono ridotti al livello di infantili invidie da scuola elementare (il massimo della tensione si raggiunge quando Elisabetta si appropria del vestito della moglie di Devereux, colpevole di essersi agghindata più elegante di lei…) e musicalmente si traducono in una frigida scrittura contrappuntistica; sia nella forma delle guerre per il potere sull’isola e l’Irlanda, tutte vicende che restano opportunamente fuori dalla portata dell’opera, giacché avrebbero richiesto uno sguardo a tutto tondo, alla Musorgksij o alla Verdi, per essere trattate in modo appropriato.
In questo vuoto drammatico, l’unico scampolo di interesse è dato dalla relazione tra la regina e il suo segretario di stato, Robert Cecil, di per sé non molto originale, visto che ricalca quella di Filippo II e del Grande Inquisitore nel Don Carlo, come ben si vede dalla scena del terz’atto in cui i due sono a tu per tu, che tanto deve al precedente verdiano. Eppure Britten vi coglie un aspetto nuovo, in grado di gettare una luce inedita su questa situazione: la misoginia da cui è circondata la regina, che tenta di farsi prendere sul serio come un autentico «Principe» e, per questo, rinuncia alla propria femminilità rimanendo vergine. Una rinuncia che, però, finirà per avere risvolti tragici: alla fine, infatti, restiamo nel dubbio che il servile consigliere abbia decretato la morte dell’amato della regina per puro sadismo, per mettere davanti agli occhi della regina la sua condizione di donna da lei inutilmente rimossa, e colpirla al cuore; non cioè per un’autentica necessità politica, per il bene dello stato. Questa femminilità dimidiata, spiega perché, tolta la memorabile scena solistica del prim’atto, la regina non abbia altri grandi momenti lirici, sembri sempre stanca e sfiorita, e non sfoghi mai il suo canto; e spiega in particolare il finale, dove, consumatasi la condanna di Devereux – o la crudele trappola della corte – ci si aspetterebbe una trasfigurazione del sentimento in un’aria; invece, non avendo più cuore per cantare, termina l’opera recitando a voce parlata, il che equivale nel melodramma a non parlare per sé, a essere distaccati dal proprio autentico essere.
In questa latente ambiguità, che sfocia nella tragica sospensione del finale, il quale di fatto non conclude l’opera e sembra lanciare una silenziosa accusa alle logiche del potere della società maschilista, è la traccia da seguire per trovare quanto di buono e di vivo ha da offrire quest’opera. Una traccia, purtroppo, resa labile da una quantità eccessiva di musica funzionale alla descrizione dell’ambiente di corte, la cui ragion d’essere è, come s’è detto, esterna al dramma, in una mal interpretata sfida storica di Britten con se stesso. Forse a riscattare l’opera, basterebbe il coraggio di tagliare della metà i primi due atti, pleonastici e ripetitivi, conservando solo le poche scene essenziali e riuscite: quella degli appartamenti della regina e quella del ballo, visto che il terz’atto funziona, nonostante l’audace finale in dissolvenza che potrebbe lasciare interdetti. In realtà, Britten ha veramente dato all’Inghilterra, dopo tre secoli d’attesa, la sua opera nazionale, ma in tutti quegli altri lavori in cui, seguendo il filo delle sue personali ossessioni, ha senza esplicitamente proporselo, dato voce allo spirito del suo paese e dei suoi tempi. Conoscere Gloriana può, però, essere istruttivo anche per questo, perché in essa viene alla luce in modo esplicito la consapevolezza di Britten di essere l’anello di una catena storica, di identificarsi in una cultura e di parlare a una nazione, ovvero tre particolarità piuttosto uniche nel panorama del Novecento, che spiegano senza andare a cercare troppo in là, perché egli sia stato forse l’unico operista di razza della sua generazione.