di Santi Calabrò foto © Rosellina Garbo
Torna a circolare in vari teatri europei Il ritorno di Ulisse in patria di Claudio Monteverdi nell’allestimento-riduzione di Philippe Pierlot, per la parte musicale, e di William Kentridge, per le scene (con Adrian Kohler) e la regìa. Visto che l’orchestra è costituita da un piccolo organico di strumenti barocchi suonati dal complesso Ricercar Consort, il Teatro Massimo di Palermo ha potuto ospitare questa produzione in concomitanza con la sua tournée in Oman, dove il Massimo “esporta” La traviata nel segno di Placido Domingo. Gli abbonati palermitani hanno mostrato un cortese gradimento per gli ospiti alle prese con Ulisse: successo abbastanza prevedibile, dato che la rivisitazione riduce i tre atti di Monteverdi a un tempo unico di 90 minuti e ha una elegante fisionomia scenica. Riteniamo tuttavia di gran lunga preferibile, ancorché un po’ più faticosa per lo spettatore, la versione completa dell’opera. Questa riduzione risponde a una sua logica e di certo non taglia solo per accorciare, ma è proprio l’idea di base, seppur coerentemente realizzata, a lasciare perplessi. Kentridge – artista sudafricano ben noto in ambito internazionale soprattutto per i suoi film di animazione su disegni – ritiene che la vulnerabilità dell’eroe costituisca il centro di irradiazione dell’opera.
Per tutta la rappresentazione vediamo Ulisse moribondo, incarnato da una marionetta e disteso su un letto da ospedale; a volte si desta con sofferenza, altre volte è oggetto di terapie. Quanto al cantante che impersona Ulisse in scena, gode anche della compagnia di una marionetta gemella e di un manovratore. Gli altri personaggi principali ugualmente sono “uni e trini”: marionetta (senza gemella moribonda), manovratore e cantante. Dando vita anche alle allegorie e agli dei, in questo caso senza marionette, gli stessi cantanti non sono identificabili come personaggi diversi: non solo in abiti moderni assumono i vari ruoli, ma le proiezioni sullo sfondo tutto fanno fuorché occuparsi di chi canta o di quello che avviene.
Nei video si ammira peraltro l’arte di Kentridge, con immagini tratte da diverse tecniche diagnostiche, dai raggi X alle risonanze magnetiche, spesso riprodotte con matita e inserite dinamicamente nel film, come processi disegnativi in process. Per simboleggiare una interiorità umana esposta in ogni epoca a timori diversi – dal fulmine di Giove spauracchio dei Greci all’infarto terrore dei nostri giorni – non c’è niente di più appropriato, per Kentridge, che scavare dentro il corpo dell’uomo. Se appare eccentrica una tale rivisitazione del nesso tra imitazione e moti dell’animo, è ancora più importante rilevare come la scaturigine dell’idea complessiva dell’allestimento, pur pescando nei testi allegorici del Prologo dell’opera, ne forzi il significato sotto diversi aspetti. Humana Fragilità, che apre l’opera, non solo si riduce a “umana vulnerabilità” (la fragilità non è solo questo), ma i suoi effetti sembrano convergere solo in Ulisse. Alla débâcle dei tratti eroici nella figura del protagonista – le cui azioni sono presentate come pallidi tentativi di risposta alla propria debolezza – corrisponde la sottovalutazione del ruolo di Penelope.
In realtà il mesto dialogo iniziale fra Tempo, Humana Fragilità, Amore e Fortuna, prepara mirabilmente il clima proprio per l’ingresso di Penelope in tutto il suo splendido dolore. E mentre qui il moribondo catalizza su di sé ogni melanconia della musica e dei testi, viene drasticamente ridotto il tempo che impiega Penelope, rispetto alla concezione originaria di Monteverdi e del librettista Badoaro, per riconoscere l’identità del marito. Nell’opera alla fine del secondo atto Ulisse si svela a tutti con la prova dell’arco, ma è tanto il rancore per i venti anni di abbandono che Penelope non ne vuole proprio sapere! Gran parte del terzo atto è qui soppressa, incluso il notevole lamento tragicomico del parassita Iro, e Penelope sin troppo lesta giunge a quel riconoscimento (in realtà un perdono) per il quale Monteverdi prevede invece di farci assistere a un altro intero atto. Ma il trionfo di Ulisse non è un vero trionfo: il lettino è sempre in scena, il moribondo/marionetta è ormai cadavere mentre il suo gemello che recita cantando tende l’arco e tosto si riprende la moglie oltre alla reggia. Ora, chiaramente, non c’è niente di sbagliato nell’approfondire la presenza della morte nella cultura barocca: il punto è che il suo senso è sempre dialettico. Nessuno lo ha detto meglio di Walter Benjamin, che nel suo Ursprung des deutschen Trauerspiels richiama un certo tipo di apoteosi allegorica barocca particolarmente rovinosa, con la pompa dell’esposizione dei cadaveri e la desolazione degli ossari, chiarendo che essa non rimanda solo allo squallore esistenziale: «La caducità è in essa non tanto significata, rappresentata allegoricamente, quanto piuttosto offerta come allegoria, a sua volta significante. Come l’allegoria della resurrezione».
In ambito laico, nel barocco ritroviamo delle analoghe dinamiche allegoriche; per questo appare qui forzato che l’eroe vulnerabile o morente sembri divorare ogni altro aspetto della ricchezza e complessità tutte secentesche dell’opera: a cominciare dalla pulsione di vita, degradata a parvenza, tentativo, rigida convenzione. Una marionetta, per l’appunto. La parte musicale sembra accordarsi alla visione di Kentridge. Il direttore e autore degli arrangiamenti, Philippe Pierlot, suona e guida il gruppo di viole da gamba con tiorba, arpa e chitarra: tutti in scena davanti a un elegante anfiteatro ligneo dove si svolge l’azione, mentre sullo sfondo le proiezioni inseguono gli affetti barocchi dentro le viscere. L’esecuzione risulta corretta e filologica, ma manca di vita, impulso e slancio. I cantanti sono bravi, in particolare Jean-François Novelli (Telemaco); Margot Oitzinger (Penelope) riesce a recuperare qualcosa di quello che la regia nega al personaggio, mentre nel ruolo di Ulisse (e in quello di Humana Fragilità) Jeffrey Thompson canta con passione, ma a volte insegue troppo l’espressione nella singola parola – fino al punto di rendere vulnerabile giusto l’intonazione –, oltre a denunciare problemi nella lingua italiana. Completano decorosamente il cast Antonio Abete (Nettuno/Antinoo/Tempo), Anna Zander (Melanto/Fortuna/Anfinomo), Hanna Bayodi (Amore/Minerva), Victor Sordo (Eumete/Giove). C’è da riflettere sul fatto che l’allestimento originale – prodotto da La Monnaie/De Munt (Brussels, Belgium), Handspring Puppet Company (Cape Town, South Africa), Wiener Festwochen (Vienna, Austria), Kunsten FESTIVAL des Arts (Brussels, Belgium) con il supporto del governo fiammingo – risalga al 1998 e venga ancora ripreso nel 2016 da Quaternaire/Paris con il supporto dell’Asia Culture Center-Asian Arts Theatre (Gwangju, Corea del Sud), del Lincoln Center’s White Light Festival (New York City, U.S.A.) e del Musikfestspiele Sanssouci und Nikolaisaal (Potsdam, Germania). In questi ultimi decenni, alla ricerca dell’esecuzione storicamente informata, in sé meritoria anche se non sempre garanzia di splendente interpretazione, non corrisponde in molti registi uno sguardo sul teatro d’opera che avverta la necessità di farsi più ampio, più storicamente e culturalmente agguerrito. Eppure non c’è altra via per esercitare la creatività ermeneutica del teatro di regia in modo consapevole, tanto più quando si tratta dell’opera in musica nel suo primo secolo di vita.