di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
L’esecuzione delle nove sinfonie di Beethoven da parte di Riccardo Chailly e della Filarmonica della Scala procede come da calendario, ma non coinvolge l’ascoltatore secondo uno schema prefissato, un contorno di parametri prevedibili (a parte, lo si dà per scontato, la cura estrema della concertazione e la risposta professionale e appassionata di tutti i componenti dell’orchestra). Ogni nuovo appuntamento, oramai lo si è capito, ci rivela anche particolari inattesi che contribuiscono a rendere decisamente interessante questa nuova lettura del ciclo. Non si tratta di una mera ricerca di tipo filologico – oggi spesso si equivoca il significato della applicazione pedante di un “metodo” con la proposta di contenuti che devono in ogni caso risultare piacevoli e finalizzati alla migliore comprensione di un testo – bensì della individuazione di alcuni parametri caratterizzanti l’opera affrontata, dettagli non ancora esplorati o sui quali non si è finora sufficientemente meditato.
La serata si è aperta con la straordinaria Ouverture dell’Egmont di Goethe, pagina scelta anche per la sua affinità tonale con la successiva Ottava sinfonia, ed è proseguita con la notissima Quinta. L’Ottava sinfonia è stata affrontata con coraggio leonino sia dal direttore che dall’orchestra, rispettando i valori di metronomo originali, scelta che è sembrata a taluni troppo azzardata ma che ha rivelato una ancora maggiore unitarietà nella successione dei quattro movimenti e ha tolto quella certa patina di parodia che spesso contamina la scansione di momenti peculiari quali l’incipit del terzo numero, in Tempo di Minuetto. Del resto la questione dei metronomi beethoveniani è tuttora molto accesa, ma non è certo mettendo in dubbio addirittura l’integrità meccanica dello strumento posseduto dal compositore, come è stato fatto di recente, che si può pensare di venire a capo al problema relativo a indicazioni che oggi sembrano irrealizzabili.
Il valore aggiunto dell’operazione di Chailly, lo ripetiamo, non coincide in questo caso con l’applicazione di una scelta accademica relativa alle velocità originarie, bensì nell’individuazione di un risultato musicale che scaturisce naturalmente dall’osservanza di queste indicazioni originali e autografe del metronomo. Se l’esecuzione dell’ottava sinfonia ha rappresentato un traguardo di difficilissima attuazione da parte dell’orchestra, la stessa ha seguito mirabilmente il direttore in una lettura formidabile della quinta, semplice nella sua perentorietà, ingegnosa nel sottolineare alcuni particolari solitamente omessi (ad esempio il richiamo dello squillo degli ottavini, soprattutto nel movimento finale) e di nuovo coraggiosa nel dare ampio spazio gestuale e sinfonico a luoghi di immenso fascino come il grande fugato di violoncelli e contrabbassi che si ascolta nella parte centrale del terzo movimento. Grandissimo successo per una programma tanto insidioso proprio perché conosciuto dalla maggior parte degli ascoltatori e quindi a rischio di continui confronti con una tradizione che si presume a volte troppo immutabile.