di Attilio Piovano foto © Edoardo Piva
Ha duecento ventotto anni e, di fatto, li porta benissimo: parliamo del Matrimonio segreto di Domenico Cimarosa, melodramma giocoso in due atti che la sera della première assoluta, al Burgtheater di Vienna il 7 febbraio 1792 – caso unico nella storia dell’opera – venne replicato seduta stante: a chiedere di bissarla per intero fu nientemeno che l’imperatore, dopo aver invitato a cena l’intero cast. E se Leopoldo II agì in tal senso, consegnando la circostanza agli annali del melodramma, un buon motivo dovette pur esserci.
A Torino, a partire dallo scorso martedì 15 gennaio 2020 (con repliche fino al 24) è approdato l’allestimento del Festival della Valle d’Itria di Martina Franca, con la regìa davvero arguta e spiritosa di Pierluigi Pizzi: una regìa perfettamente funzionale a questo vero e proprio capolavoro assoluto, partitura di superba bellezza e congegno drammaturgico a dir poco perfetto che non a caso – giocando su spassosi equivoci e fraintendimenti vari da commedia brillante – seduce tuttora le platee. E una parte del merito spetta certo al buon libretto a firma Giovanni Bertati che trasse ispirazione in egual misura al ciclo di lavori del pittore inglese William Hogarth (cui attingerà poi anche Stravinskij per il suo Rake’s Progress), ciclo intitolato Le mariage à la mode e destinato a vasta circolazione grazie a riproduzioni in veste di incisioni, e così pure, nel contempo, alla commedia di George Colman e David Garrick The clandestine marriage che presuppone una precisa conoscenza dei citati lavori figurativi di Hogarth. Tra i versi più divertenti dell’intero libretto – ma molti potrebbero essere gli esempi – citiamo quelli cantati da Carolina che per respingere le bollenti profferte amorose (o più propriamente erotiche) del conte, vero e proprio sfrontato pressing, si auto definisce così: «Sono infatti una figliola di buon fondo e niente più» [N.d.R. il corsivo è nostro], curioso passaggio che, come notava taluno tra il pubblico, si presta ad una moderna (e ben più maliziosa) lettura.
Molte le esilaranti gags poste in essere da Pizzi – artista novantenne di singolare lucidità e dalla creatività pressoché inesauribile – gags peraltro mai volte a catturare l’applauso purchessia, bensì sempre improntate a una smagata e intelligente ironia (appena qualche piccola forzatura qua e là, del resto pienamente giustificabile nell’economia generale dell’impianto). E allora ecco che già durante l’ouverture si alza il sipario e Paolino e Carolina, come una normale coppia di giovani innamorati, o meglio di neo sposini, si apprestano a consumare la colazione, ancora in vesti da camera – lei scalza e provocatoriamente sexy, lui addirittura seminudo in slip blu, prima di indossare pantaloni bianchi e maglietta nera – giocando a farsi il solletico ed amoreggiando con grazia. Irresistibile poi la scena in cui Robinson tenta di rendersi inviso a Lisetta, così dicasi del passaggio in cui Lisetta, assieme a Fidalma, indulge al bicchiere per affogare la delusione del rifiuto e via elencando, giù giù sino allo stupore di tutti gli astanti quando Lisetta chiama a raccolta la gente di casa a testimoniare in merito al presunto ‘tradimento’ da parte della sorella e si trova al cospetto di Carolina e del suo sposo, laddove credeva di coglierla in flagrante col conte stesso.
Pizzi firma anche le eleganti scene e i costumi di questo fascinoso spettacolo. E allora ecco un luminoso e abbacinante open space che le azzeccate luci di Andrea Anfossi esalta alquanto. A prevalere sono i colori primari, bianco, giallo, rosso (ma anche il nero ed il blu), come nei Riquadri di Mondrian; svariate e riconoscibilissime le ‘citazioni’ dalle opere pittoriche e scultoree di Fontana (i celeberrimi Tagli, ma anche i Monocromi di Schifano e lavori di Bonalumi), appesi alle pareti e disposti ad arredare un ambiente che pare una vetrina di design da rivista patinata di architettura (o di arredamento di lusso); e ancora le blasonate sedie Wassily di Breuer del Bauhaus, oggetti di Castiglioni, eleganti divani Frau, e ben sei porte dalle quali gli altrettanti personaggi entrano ed escono come in una pièce di Feydeau, o più precisamente come in una sit-com familiare ante litteram. Nulla è lasciato al caso, tutto è studiato con calcolata precisione: di rilievo ad esempio il fatto che i personaggi escano sempre esattamente ognuno dalla medesima porta. E allora Geronimo e Fidalma dalle porte disposte sul fondo, mentre quelle sul lato destro del palcoscenico spettano ai giovani Paolino e Robinson, dirimpetto alle stanze di Lisetta e Carolina. Perfino nelle chiamate per gli applausi i personaggi rispettano tale gerarchia spaziale, rivelando meticolosa e fin maniacale cura registica.
Buona, nel complesso, è parsa la prova fornita da Carolina Lippo, nei panni di Carolina – nomen omen – la sorella minore e così pure quella di Eleonora Bellocci, alias Lisetta, la maggiore delle due, sempre intente a far baruffe: e si tratta di due giovani emancipate e un po’ ribelli, ora preda della gelosia ora del risentimento. Vocalmente risultavano entrambe a posto, salvo qualche asprezza e taluni acuti un po’ striduli sfoderati sia dall’una sia dall’altra. Nei loro abiti policromi sono parse scenicamente efficaci e si sono mosse con notevole disinvoltura (Lisetta esibendosi addirittura in piedi sul tavolo e Carolina con momenti di notevole equilibrismo per dribblare le avances di Robinson – impareggiabile sia vocalmente sia scenicamente in «Perdonate signor mio» – lasciandolo a bocca asciutta come quanto egli finisce per abbracciare e baciare il pilastro); così dicasi quanto a presenza scenica e capacità di muoversi sul palco dell’aitante e atletico Paolino (il valido Alasdair Kent, dalla vocalità esuberante, e pazienza per un vibrato forse in qualche caso fin troppo esibito). Gran mattatore, il conte Robinson di Markus Werba (nella finzione di Pizzi una sorta di vanesio playboy dall’azzimato vestito blu elettrico): ammirato sia sul piano vocale sia quanto a movimenti, dacché non si risparmia certo, e in un punto canta addirittura ostentando una decina di flessioni al pavimento, cose non da tutti.
Il padre Geronimo, ricco mercante smanioso di procurare alle figliole un matrimonio titolato, tentando in tal modo l’arrampicata sociale, nella sagace e niente affatto peregrina idea registica di Pizzi, è un collezionista parvenu (ecco le opere preziose alle pareti dell’open space) che nel suo completo color senape soggiace al divenire degli eventi, sempre più confuso, mercé una sordità incipiente fonte di risate (come sarà poi in Don Pasquale), giù giù sino all’immancabile lieto scioglimento: laddove si compie l’improbabile ribaltone con Robinson che accetta di sposare Lisetta, senza quasi battere ciglio dopo averla rifiutata con ostinata pertinacia, l’immancabile gioia del padre-affarista ben lieto dello sconto secco sulla dote e, per contro, sbollita la collera, il suo scontato e più o meno magnanimo perdono ai novelli e clandestini sposi. Nel dar voce al personaggio, il basso Marco Filippo Romano ha convinto appieno, già fin dalla lettura della lettera del conte e poi nel celeberrimo “Udite, tutti udite” (e pare il cartone preparatorio del futuro “Udite udite o rustici” di Dulcamara). Divertente, poi, la zia Fidalma del mezzosoprano Monica Bacelli, capace di rendere al meglio con le sue ombreggiature i rigurgiti di erotismo di una vedova certo agée, ma ancora ardente e combattiva, insomma desiderosa di rifarsi, come si suo dire, ‘una vita di coppia’: peccato che abbia messo gli occhi proprio su Paolino e da lì non pochi equivoci; vero coup de théâtre il suo esagerato e maldestro tentativo di sedurre Paolino stesso (gli toglie addirittura la maglia senza troppi preamboli e gli slaccia financo la cintura dei pantaloni) sino a farlo svenire, uno dei passi che in assoluto sembra aver maggiormente deliziato il pubblico. Tra i momenti più ‘alti’ in assoluto i finali d’atto, ma anche il quartetto “Sento in petto un freddo gelo” o ancora il duetto “Se fiato in corpo avete”.
Molto apprezzata la puntuale e scrupolosa direzione del giovane Nikolas Nägele che, al suo debutto al Regio, ottimamente assecondato dall’Orchestra della Fondazione lirica torinese, ha impresso tempi giusti e la necessaria scioltezza al tutto sin dalla pimpante ouverture: sapendo però anche indugiare, dove occorre mettere a fuoco languorosi empiti sentimentali, passaggi lirici e velature teneramente larmoyantes (valga per tutti «Pria che spunti in ciel l’aurora»), per poi ‘spingere’ negli irresistibili concertati che dell’opera di Cimarosa sono uno dei punti di forza. Nägele, mostrando cultura e sensibilità, si è rivelato un ottimo direttore nel penetrare a fondo questa partitura di somma bellezza, sapendone porre in luce le vistose assonanze mozartiane, ma al tempo stesso mostrando a chiare lettere come ormai Rossini sia dietro l’angolo. Non solo: al contrario di altri direttori che sembrano quasi ignorare il palcoscenico, tutti concentrati sull’orchestra, egli ha tenuto saldamente in mano lo spettacolo con un’acribia vigile e consapevole che non è da tutti. Un plauso speciale infine a Carlo Caputo per aver disimpegnato dalla tastiera del fortepiano gli estesi recitativi con flessuosa maestria.