di Luca Chierici
La copertina del programma di sala di Madina pone, come co-autori del lavoro che ha debuttato il primo ottobre nel nostro Teatro, Fabio Vacchi e Mauro Bigonzetti. Madina è di fatto un lavoro di teatro-danza in tre quadri, un complesso di ballo, musica, movimenti scenici, narrazione-melologo, video che esplorano un percorso di sofferenza totale, quasi una delle componenti non fosse da sola sufficiente a trasporre in teatro i contenuti del libretto di Emmanuelle de Villepin, da quest’ultima elaborato a partire dal proprio romanzo La ragazza che non voleva morire.
La ragazza è Madina, giovane cecena incaricata di compiere un attentato suicida, che alla fine, meditando sui motivi della vendetta (la violenza subita e l’uccisione dei propri genitori da parte dei soldati russi) e al mondo di odio e di vendetta che la circonda, si rifiuta di sottostare ai comandi del terribile Kamzan e del di lui padre Sultan e di compiere il massacro, seguendo poi un percorso di liberazione grazie anche all’intervento del giornalista francese Louis e della matura Olga. Nel libretto, a parte il coté parigino, vengono tolti tutti i riferimenti geografici, per cui si può affermare che la vicenda abbia luogo in uno spazio che concentra in sé tutti gli orrori delle guerre che hanno devastato il nostro tempo, dalla Jugoslavia fino all’Afghanistan.
L’illustrazione di questo soggetto è affidata come si diceva alla musica di Fabio Vacchi e alle coreografie di Mauro Bigonzetti, ma si potrebbero veramente citare come co-autori il costumista Maurizio Millenotti, lo scenografo Carlo Cerri, i video designer Cerri, Grisendi e Noviello – che proiettano sullo schermo di sfondo immagini di incendi e rovine genericamente riferibili a un universo di guerre contemporanee – e sicuramente gli interpreti stessi che hanno vissuto in prima persona questa creazione elaboratissima: dal Corpo di ballo della Scala diretto da Manuel Legris e i suoi protagonisti, i cantanti, il direttore Michele Gamba che si è preso in carica il lavoro di minuziosa decodifica del segno di Vacchi e la sua trasposizione strumentale, la voce recitante, il Coro e tutti coloro che hanno collaborato a questa creazione, compresa naturalmente l’autrice del romanzo/libretto, quasi incredula nei confronti della realizzazione di tanto progetto ed entusiasta del lavoro compiuto soprattutto da Antonella Albano, la ballerina protagonista.
La musica di Vacchi è allo stesso tempo un riassunto stilistico della propria cifra musicale e un prodotto intimamente influenzato dal soggetto messo in scena. Il riferimento specifico alla Cecenia è stato minimizzato (“metabolizzato”), e richiamato solamente da qualche componente ritmica che si può fare risalire a suggestioni bartokiane (il “ritmo bulgaro” che è in realtà turco, precisa il musicista). Si è riconosciuto Vacchi fin dall’inizio attraverso degli assoli di violino che ci hanno ricordato il bellissimo suo Concerto e lo si è seguito nella successione dei molti momenti sinfonici – soprattutto i due Interludi orchestrali – che si alternavano a parti cantate e recitate. Un finale in cui la componente ritmico timbrica delle percussioni gioca un ruolo principale conclude con grande veemenza un percorso musicale complesso e sempre vario.
È naturale che l’aspetto più direttamente coinvolgente per il pubblico sia stato quello scenico-coreografico, che ha comunque beneficiato di un rapporto vivo con la parte musicale di Vacchi (lui aveva parlato di “lavoro sul corpo”, della musica come strumento di emozione e comunicazione come anche confermato dagli studi in campo neuroscientifico). Madina era Antonella Albano, che interpretava un personaggio difficile ma a suo parere positivo nel senso di apertura a tutte le possibilità che potevano scaturire da una vicenda così complessa e per lei colpevolizzante. Nel ruolo di Kamzan, Roberto Bolle ha convogliato tutta la sua bravura e versatilità e oggi, a quarantasei anni, si può dire grandissima esperienza, tanto da poter affrontare con il massimo successo un carattere così diverso da quelli del balletto classico. Un carattere che lo ha portato persino ad affrontare lati del proprio io ancora inesplorati, umanamente e artisticamente. E tanto intensa è stata la sua interpretazione da far sembrare, a tratti, che fosse il suo personaggio a caricare su di sé tutta la forza del movimento coreografico. Fabrizio Falco, attore-narratore ha tenuto le fila del racconto con il distacco misto a immedesimazione totale che rendeva ancora più vero il proprio lavoro di “documentarista” ma anche di voce che riprende gli interventi di diversi personaggi del libretto. Anche a lui sono stati indirizzati convinti, affettuosi applausi da parte del pubblico. Come per gli alter-ego vocali di Madina e Sultan, il mezzosoprano Anna-Doris Capitelli e il tenore Chuan Wang, che interpretavano anche un “doppio” ciascuno, ossia i personaggi di Olga e di Louis e si caricavano così di un compito gravoso per differenziare il loro apporto di canto. ll coro istruito da Alberto Malazzi era impegnato in una parte fondamentale che si faceva tutt’una con quella orchestrale. Lo spettacolo, della durata di una ottantina di minuti, si può dire abbia tenuto il pubblico immerso in una tensione che non si stemperava neanche nel finale e che è stata alimentata come si diceva da tutte le componenti di questo lavoro quasi impossibile da definire. Fors’anche per la convinzione agghiacciante secondo cui, per una volta, il teatro non faceva che meditare su una realtà vera e ancora più terribile di quella trasposta sul palcoscenico.