di Attilio Piovano
Una Norma rassicurante e – in buona sostanza – super tradizionale quanto a impianto scenografico: quella vista al Regio di Torino, la sera dello scorso sabato 12 marzo 2022.
L’allestimento proviene dal napoletano San Carlo ed è stato espressamente dedicato alla memoria di Enzo Frigerio scomparso lo scorso 2 febbraio alla veneranda età di novantadue anni, che a suo tempo ne aveva firmato le scene: per sua stessa ammissione volte ad evocare un luogo di sapore nordico, quasi una dimensione ‘pre-gotica’, con boschi, caverne, una foresta che ha inglobato ruderi e architetture, fuochi fumiganti (resi dalle proiezioni), l’immancabile ara con un iper realistico vischio e con tanto di falcetto in mano a Norma per reciderlo e via elencando. Insomma una Norma come ragionevolmente si aspetta il pubblico (quantomeno la tranche più conservatrice dei melomani), ancorché – diciamolo – non particolarmente fantasiosa, a dispetto delle dichiarazioni di intento e del dichiarato riferimento a certa pittura romantica.
Entro tale cornice (per inciso vi campeggia una luna che non si sa se definire naïve o semplicemente di rara bruttezza) i costumi di Franca Squarciapino sono prevedibilmente e pur coerentemente in sintonia, un Nord non meglio identificato… Quanto a regìa (Lorenzo Amato), dati gli assunti, ha ben poco da inventare, e infatti si limita a muovere le masse con didascalica e talora fin banale scontatezza, lasciando i protagonisti liberi di occuparsi per intero del canto (ma il singhiozzare esibito di Oroveso, poco prima dell’ascesa al rogo di Norma e Pollione, finiva per risultare eccessivo: ancora una volta il confine tra sublime e ridicolo è estremamente labile). Quanto al rogo finale è reso col gioco di proiezioni-video (Sergio Metalli) e l’ausilio delle luci di Vincenzo Raponi che dopo aver indugiato sui toni freddi di muschi e cieli lividi, si fanno improvvisamente rossastre, mentre di botto le intere masse voltano la schiena al pubblico. Si sarebbe potuto far di meglio? Francamente sì. A fine spettacolo, salutato a onor del vero da calorosi e del tutto meritati applausi al versante squisitamente musicale, in tanti si domandavano (legittimamente) perché mai ‘importare’ tale allestimento – che avrà pure avuto i suoi costi, supponiamo – e non già, se proprio s’aveva da rifare Norma, riprendere ancora una volta (in clima di ristrettezze non sarebbe stato male) l’ottima edizione che il Regio aveva proposto, con successo di pubblico e di critica, nel 2012 (memorabili scene e costumi dalle nette cromie di William Orlandi e la storica regia di Alberto Fassini), replicando poi ancora nel 2015, con analogo gradimento. Ma tant’è.
Opera complessa, sotto il profilo drammaturgico, Norma è partitura di innegabile bellezza, dai ricchi contenuti musicali, anche agli occhi di chi non ama quella specifica ‘fetta’ di repertorio ottocentesco, con al suo interno una quantità di magnifiche pagine (vari i preziosismi anche strumentali), ben al di là dell’evergreen «Casta diva» che con la sua lunare, siderale, apollinea venustà da sempre rischia di porre un poco in ombra i restanti passi. Meno convincente, oggidì, sul piano drammaturgico: una trama, quella di Norma, invero difficile da accettare dove sublime e luoghi comuni talora si sfiorano pericolosamente, come nel finale in cui Pollione sale al rogo accanto alla rea confessa Norma, dopo un fittizio mutamento psicologico, ribaltone dei sentimenti del tutto inverosimile, tale da rendere poco credibile (se non francamente risibile) la pur debole e di fatto inconsistente figura di Pollione.
E dunque i tratti eminentemente musicali dello spettacolo. La direzione del giovane talento Francesco Lanzillotta si è rivelata buona fin dalla Sinfonia affrontata con slancio energico e teso a preconizzare il clima di inesorabile tragedia; una direzione con momenti di innegabile efficacia, ancorché un poco ‘a corrente alternata’: talora non faceva nulla per attenuare – ci sia concesso – l’effetto rataplan che in alcuni passi collide paurosamente con quanto delineato dai versi irrimediabilmente ‘datati’, nella loro freddezza letteraria, di Felice Romani; talaltra, specie nella parte finale in cui la partitura obiettivamente decolla, innalzandosi alquanto, riusciva ad evidenziarne al meglio la tragicità, giocando su gradazioni coloristiche e dinamiche, con sapienti sottolineature di timbri e fraseggi, insomma una direzione nel complesso di buon livello. Attenta ai dettagli, alle mille raffinatezze timbrico-melodiche, senza mai perdere di vista l’insieme, se si eccettua qualche occasionale momento di stagnazione. Lanzillotta (cui spetta il merito di aver optato per l’edizione integrale) ha saputo peraltro conferire il giusto rilievo a quei passi ritmicamente turbolenti che paiono già anticipare certi passaggi verdiani, per dire, di un Rigoletto.
Così pure buona la prova fornita dall’Orchestra del Regio ed eccellente quella del coro ancora una volta ottimamente istruito da Andrea Secchi cui spettano, si sa – vari e determinanti momenti, a partire dall’iniziale Ite sul colle o Druidi dalla «barbarica solennità», giù giù sino al conclusivo e drammatico Guerra, Guerra, prima che la vicenda volga in personale tragedia per Norma e Pollione che assieme ascendono al rogo, nel momento che dovrebbe apparire sublime e catartico. Pur tuttavia, a nostro avviso, a tratti è un poco venuta meno la necessaria tensione, quel senso del destino, quell’incombere del fato che domina sovrano nella partitura: una partitura in cui ci si trova a dover porre a reagire momenti di assieme e istanti intimisti, introspettivi, in un mix di classico e romantico che dell’opera stessa costituisce l’essenza, il fascino e se si vuole, anche il limite irrimediabile: col rito della mietitura del vischio, ad esempio, segnato da lento incedere della masse attorniate dal mistero della natura immanente, quasi specchio dell’animo e contraltare delle vicende umane e dei sentimenti contrastanti che attanagliano i protagonisti, soprattutto la protagonista. E si è trattato del soprano Gilda Fiume che con la sua vocalità sicura ed il suo consapevole, scaltrito virtuosismo (molto apprezzati gli abbellimenti posti in atto) ha saputo dar voce ad una Norma di forte impatto, suscitando applausi convinti a scena aperta nell’immancabile e topico Casta diva, vero luogo emblematico, col suo lirismo onirico ed effusivo. Ha regalato accenti di innegabile emozione: pianissimi delicati e bei suoni filati. Ancor più il pathos è andato infittendosi nella parte finale, laddove sui sentimenti di vendetta prevalgono l’amore e il senso del sacrificio. Taluno avrebbe desiderato una ancor maggior capacità di calarsi (anche sul piano della presenza scenica) tra le pieghe del personaggio e nella sua complessa, variegata e francamente inattuale psicologia. Ma tant’è. Le si deve obiettivamente riconoscere un’ottima tenuta quanto a resa vocale di una parte a dir poco impervia.
Molto apprezzato, poi, il mezzosoprano Annalisa Stroppa nei panni di Adalgisa: svariate le finezze di cui si è mostrata capace, nonostante certe pur piccole disomogeneità di registro. È parsa convincente e toccante, specie nei vari momenti in cui alla sua parte è richiesta una humanitas di forte caratura, ad esempio in Sola furtiva al tempio. Meritatamente applaudito il tenore Dmitry Korchak nell’impersonare il protervo proconsole romano Pollione: bene vocalmente, aitante e possente, senza cedimenti verso la becera captatio benevolentiae di altri, meno convincente sul piano scenico (che pure passa in secondo piano, rispetto al lato squisitamente belcantistico della sua parte affrontata con sicurezza ed anche una passabile eleganza). Corretto, ma senza troppo appeal, l’anziano Oroveso di Fabrizio Beggi, capo dei Druidi, austero personaggio pubblico e al tempo stesso padre tenero. Ci si aspettava qualcosa in più, obiettivamente. Da ultimo i comprimari. inascoltabile o quasi Joan Folqué nei panni di Flavio amico di Pollione, dal timbro francamente sgraziato, bene invece Minji Kim nelle vesti della confidente Clotilde.