di Attilio Piovano
Festosa e acclamata conclusione di stagione per i Concerti di Lingotto Musica, a Torino, presso l’Auditorium ‘Agnelli’ progettato da Renzo Piano, la sera di mercoledì 27 aprile 2022. Sul palco la prestigiosa e blasonata Orchestre de Paris diretta dal fuoriclasse finlandese Esa-Pekka Salonen. Piatto forte del programma la vasta (a tratti pletorica) ma sempre efficace Fantastique di Berlioz.
Il banco di prova per comprendere se si tratti di interpretazione davvero ‘alta’ e di caratura oppure no? Certamente il vasto e talora dispersivo movimento lento, volto ad evocare la cosiddetta Scene aux champs. Troppe esecuzioni fanno flop in tale movimento, facendolo risultare – absit iniuria verbis – di una noia mortale e gettando così, di fatto, un fascio negativo sull’intera partitura.
Che, si sa, è invece costituita da una miriade di belle immagini sonore e soprattutto timbriche, ed ha una sua saldezza espressiva dovuta a un uso sapiente del leit motiv, o per dirla con Berlioz stesso dell’idée fixe. Ebbene, Esa-Pekka Salonen, vero fuoriclasse della bacchetta, dal gesto ampio ed elegante, talora perfino un filino estetizzante, ma pur sempre funzionale al risultato sonoro, ha centrato appieno l’obiettivo, cogliendo l’esprit di questo movimento centrale, fatto di atmosfere sospese, di evanescenze. Lo ha reso estenuato quanto basta, cesellando con cura, ponendone in luce le variegate raffinatezze coloristiche e non solo, facendo apparire un pregio quello che, a detta di altri è invece una sorta di difetto: vale a dire quella sua certa innegabile frammentazione, quel modus come di rapsodico incedere, cui il direttore finnico ha saputo dare un senso convincente. Potendo contare su una compagine di ottimo livello, con valide prime parti, in tutte le sezioni, una compagine coesa ed affiatata dal suono ben riconoscibile.
Il direttore ha saputo governare con mano salda, giocando con intelligenza e sensibilità su fraseggi, dinamica ed agogica
La Fantastique con i suoi noti assunti programmatici si era inaugurata nel clima giusto. Del primo movimento, sognante e appassionato, Salonen ha ben focalizzato la ‘curva’ espressiva conferendo bei fraseggi, immettendo molta souplesse nell’interpretazione, evitando quelle grevi pesantezze che talora ne minano alla radice la freschezza. Scioltezza e chiarezza di eloquio: ecco, queste parevano essere le chiavi di lettura prevalenti per il variegato primo tempo che è filato via liscio con godimento. Bene poi anche il secondo, del quale Esa-Pekka Salonen ha messo in luce la raffinata eleganza, evitando di trasformare il Valzer in una danza paesana, come troppo spesso accade, dunque richiedendo leggerezza ai contrabbassi che parevano galleggiare, lavorando di bulino su arpa ed archi, giocando abilmente con gli aspetti agogici e molto altro ancora. Evitando eccessivi gigionismi, cui pure svariati direttori non riescono a rinunciare in questo movimento dalla squadrata, apparente bonomia, in realtà pieno di raffinatezze (e di insidie).
Grandi emozioni poi nella ‘cinematografica’ ed effettistica Marche aux supplice dalle atmosfere livide e talora grottesche, ma di un grottesco lontano mille miglia da quanto saprà poi fare il novecentesco e sublime Mahler: un grottesco tutto ottocentesco, descrittivistico ed evocatore di atmosfere cupe, con sonorità sorde, effetti stralunati e altro ancora. Tutto è parso equilibrato e perfettamente a posto. Molto bene ottoni e percussioni che in tale movimento, si sa, giocano un ruolo davvero singolare. Da ultimo il Sabba e la iterata citazione del Dies Irae, significativo memento mori. Anche in questo caso il direttore ha saputo governare con mano salda, giocando con intelligenza e sensibilità su fraseggi, dinamica ed agogica, e conferendo il ritmo squadrato alla trascinante parte conclusiva che, ovviamente, ha scatenato applausi convinti e meritati consensi. E pazienza per qualche piccolo neo qua e là, certe impercettibili imperfezioni di intonazione nei fiati e qualche perfettibile passaggio.
In programma anche il capolavoro assoluto della Suite da concerto del bartokiano Mandarino meraviglioso. L’attacco ha fatto ben sperare. E infatti l’interpretazione complessiva ha poi confermato l’impressione iniziale. Benché talora, qua e là, alcuni passaggi siano risultati – certo intenzionalmente – come annacquati, come se Esa-Pekka Salonen abbia inteso attenuare la virulenza di questa partitura sopraffina, al servizio di un tema scabroso e scandaloso che all’epoca fece scalpore. Come se avesse inteso ‘addomesticarne’ certi tratti virulenti e smaccatamente espressionistici: ecco sì, in certi passaggi pareva che la sua lettura guardasse più al mondo francese che all’Espressionismo. Ma invero non sono mancati i tratti di grande efficacia: tra questi soprattutto l’apparizione minacciosa del Mandarino con tutta la sua laida e proterva sensualità. E se certi passaggi della partitura rivelavano una forse eccessiva rarefazione – i sublimi pallori lunari della celesta, certi momenti solistici dei legni e altro ancora – in realtà di calibrata scelta si è trattato, per porre in luce, per contro, i momenti di maggior enfasi e tellurica veemenza sonora. Infine il gigantesco e sublime fugato che raramente è parso così impressive e così efficace nella sua intrinseca bellezza, formale, strutturale dunque, e così pure timbrica. Un fugato che ha fatto dimenticare certe perplessità emerse qua e là all’ascolto della superba Suite.
Poi a fine serata Esa-Pekka Salonen, visibilmente eccitato e adrenalinico, annuncia – in italiano e con viva cordialità – il primo dei due bis e si tratta del raveliano Jardin féerique che magnificamente chiude la suite Ma mère l’Oye, con i suoi tinnuli carillon, il violino solista a centro pagina e la chiusa ebbra, iridescente e luminosa. Una gioia per le orecchie e per gli occhi nel ‘vedere’ l’intera orchestra vibrare di euforia sonora. E dire che la serata aveva avuto inizio proprio nel segno di Ravel del quale si era ascoltata una invero fiacca e slabbrata interpretazione della Pavane pour une infante defunte che non aveva per nulla convinto: pazienza per lo scrocco iniziale del corno, sono cose che possono accadere, ma era l’impostazione stessa che aveva lasciato perplessi, un tempo troppo lento (a sottolineare certo una qual estenuazione, ma di fatto penalizzante) e poi un che di strascicato che ne aveva immediatamente e a nostro avviso irrimediabilmente annullato l’intensità. Tutt’altra atmosfera per il giardino fatato carico di mistero e ricco di appeal che è invece parso perfettamente a posto sul piano espressivo, oltre che tecnico, regalando intense emozioni. Chiusura ancor più ebbra e incandescente, con il wagneriano celeberrimo Preludio dal Lohengrin che ha permesso di mostrare un’ultima volta le straordinarie potenzialità timbriche, la coesione e la possanza sonora della compagine parigina, confermatasi in tutta la sua smagliante forma.