di Gianluigi Mattietti
Dopo essere stato cancellato nel 2020, realizzato esclusivamente online nel 2021, il Festival MaerzMusik di Berlino è ritornato quest’anno nella sua versione “live”, e in tutto il suo anarchico splendore.
Fedele alla sua filosofia di «Festival für Zeitfragen» che esplora il fenomeno del tempo legato alla nostra percezione, ma anche nelle sue dimensioni artistiche, sociopolitiche, filosofiche, e nelle sue relazioni con le tecnologie digitali, è una rassegna multidisciplinare, che non si limita ai concerti, ma offre un ampio panorama di performance, installazioni, film, conferenze, incontri, workshop aperti al pubblico, con l’intento di proiettare la musica contemporanea nel più ampio dibattito culturale. Quest’anno la rassegna si interrogava in particolare sulle trasformazioni che caratterizzano il nostro presente, e sulla possibilità di interconessioni molteplici, prendendo come metafora (e grafica del manifesto) quella del micelio, cioè l’apparato vegetativo dei funghi, formato da una vasta rete di filamenti che pervadono il suolo, collegando habitat e specie.
A queste ramificazioni sembrava ispirarsi direttamente il ciclo di incontri-performance intitolato «Interpoiesis» (dal concetto di «Simpoiesi» elaborato da Donna Haraway, come configurazione che supera il principio di autosufficienza dei sistemi viventi, ponendo alla base dell’evoluzione processi trasversali di organizzazione) che mettevano il pubblico a contatto diretto col processo creativo. Nell’incontro con George Lewis, ad esempio, il compositore americano parlava della sua nuova opera, Song of the Shank, che andrà in scena nel 2023 (con l’Ensemblre Modern), dialogando in remoto con lo scrittore Jeffery Renard Allen, autore del libretto. Così, con una partitura ancora in fase di lavorazione, si è scoperto l’argomento dell’opera, la storia di Thomas Wiggins, pianista nero, nato schiavo, cieco dalla nascita, noto Blind Tom (cui Allen aveva dedicato già un romanzo), il suo contenuto poetico, che affronta il rapporto tra musica, identità e diritti umani, le fonti cui hanno attinto compositore e librettista, la presenza nell’opera di due protagonisti, un ruolo vocale e un pianista, che incarnano le due anime complementari della personalità di Tom. Nella stessa serata una vera rivelazione è stata la performance di Sofia Jernberg, etiope, adottata e cresciuta in Svezia, ora residente a Oslo, cantante, improvvisatrice, compositrice sperimentale, ammirata non tanto nell’esecuzione delle Récitations di Aperghis, quanto in un suo pezzo, intitolato One Pitch: Birds for Distortion and Mouth Synthesizers (2022): un vero caleidoscopio di effetti vocali estremi, difonici, di suoni gutturali, distorsioni, vocalizzazioni non verbali, che rivelavano il suo interesse ad ampliare al massimo il range delle possibilità “strumentali” della voce.
A MaerzMusik, un interessante spazio è stato dedicato al musicista e artista afroamericano Benjamin Patterson, nato nel 1934, scomparso sei anni fa, tra i fondatori del movimento Fluxus, celebrato con una mostra con partiture originali, testi, oggetti, e video che permettevano di scoprire il suo approccio ludico con temi politicamente impegnati. Un’ampia retrospettiva è stata dedicata anche a Éliane Radigue, “grande dame” della musica elettronica in Francia, influenzata dalla musique concrète e dalla minimal music della prima ora, studiosa della musica tibetana, ora novantenne. È stata presentata per la prima volta l’integrale delle sue composizioni elettroniche realizzate (con il sintetizzatore ARP 2500) tra il 1970 e il 2000, in una serie di diciassette concerti organizzati nel magico spazio dello Zeiss Grossplanetarium. Si è scoperta così la sua musica che è come un inno alla lentezza, fatta di microvariazioni che avvengono dentro il suono, di vibrazioni profonde che ne espandono la percezione. Caratteristiche evidenti, ad esempio, in Étude (1970), che lasciava lentamente scomparire un pezzo di Chopin in circuiti di feedback, trasformandolo in una nuvola di suoni; o in Transamorem – Transmortem (1973), un groviglio di frequenze apparentemente statico, immutabile, ma allo stesso tempo capace di creare una sensazione di solennità.
Molte delle musiche presentate a MaerzMusik si muovevano nel fertile territorio intermedio tra composizione e istallazione. L’«opera a cinque voci» Who Am I (2022) di Christian Kesten, metteva in scena cinque personaggi (con nomi corrispondenti ad altrettanti anagrammi del nome del compositore), i cui volti erano proiettati su altrettanti schermi, disposti in cerchio. Ne veniva un “concertato” fatto solo di respiri e di espressioni facciali, che faceva apparire i personaggi come alla ricerca della propria identità, e creava associazioni stridenti, contraddittorie tra le smorfie e la trama di respiri. I cinque video sono stati registrati separatamente, e poi montati come in un loop, creando una polifonia di respiri che veniva percepita come una sorta di “rumore bianco”, con un ampio spettro di sfumature timbriche, insieme statico e inebriante. Dal carattere istallativo, e molto spettacolare, era anche 100 Cymbals (2019) di Ryoji Ikeda, uno degli ultimi progetti delle Percussions de Strasbourg, già eseguito in varie città del monto, e presentato a Berlino nello storico cortile del Gropius Bau: cento piatti disposti in dieci file di dieci piatti ciascuna, formavano un gigantesco quadrato di “funghi” metallici, che venivano suonati da dieci percussionisti, generando una dimensione acustica del tutto nuova, sul confine tra rumore e risonanza armonica, svelando il potenziale polifonico di uno strumento basico come il piatto sospeso, giocando tra brusii ed effetti timbrici nel pianissimo, fino a un travolgente crescendo finale, con percorsi geometrici degli interpreti tra gli strumenti che apparivano come una vera e propria coreografia.
La rassegna si è conclusa con una maratona intitolata A Garden of Forking Paths, che riprendeva l’idea di Borges di fratturare il tempo in percorsi alternativi per creare un racconto capace di contenere tutte le possibili narrazioni. Il ciclo, imperniato sulla molteplicità delle fonti di ascolto e delle relazioni possibili tra sorgenti sonore, comprendeva anche istallazioni che suggerivano accostamenti tra passato e presente, o tra luoghi diversi, incompatibili, come i Nature Soundscapes, dove suoni di natura, rumori di ruscelli, provenivano da altoparlanti nascosti sugli alberi di una piazza pubblica, rumorosa e affollata. In questa grande kermesse c’era anche un interessante concerto dedicato all’Ucraina (in una città come Berlino, dove la stazione centrale era diventata un hub chiave nel flusso di profughi in fuga dalla guerra, e dove l’ambasciata della Russia era transennata per le accese manifestazioni contro l’aggressione in Ucraina), tenutosi nei sotterranei del Silent Green (l’ex crematorio di Wedding) che ricordavano le “catacombe” nelle quali si rifugia in questi tempi la popolazione civile ucraina. L’impaginazione stessa del concerto e la disposizione dei diversi ensemble coinvolti (harmonic space orchestra, Ensemble Mosaik, Maulwerker, Kaleidoskop, Zafraan Ensemble) suggerivano diverse forme di ascolto, un diverso rapporto tra musicisti e pubblico, una diversa percezione del suono analogico e digitale. In Spleen (2019) della compositrice ucraina Anna Korsun, sei musicisti disposti in cerchio e rivolti verso l’esterno, intrecciavano fasce armoniche che slittavano, glissavano, si fondevano timbricamente, portando all’estremo le tensioni dei materiali, e creando effetti quasi elettronici. Di grande impatto anche un pezzo storico come Aus aller Welt Stammende (1973) per dieci archi, che mescolava musiche folkloriche in un fitto contrappunto dall’effetto caleidoscopico e onirico. Le trame strumentali di Claudius Ptolemy (2017) di Marc Sabat, esponente di punta della corrente della “Just Intonation”, fluivano lente, con un’accordatura pitagorica, con “intervalli accordabili” che potevano essere realizzati con precisione a orecchio, e suggerivano ancora una sospensione del tempo.