di Attilio Piovano
Applaudita e festosa inaugurazione del Festival MiTo, edizione 2022, a Torino, presso l’Auditorium del Lingotto, la sera di lunedì 5 settembre (replica a Milano la serata successiva). Festival che quest’anno – significativamente ed emblematicamente, dopo il buio di un biennio di pandemia – ha per titolo bene augurale «Luci» intendendo declinare in svariate modalità l’idea appunto della luminosità grazie ai pentagrammi.
Protagonista la blasonata Philharmonia Orchestra, complesso di straordinaria bravura, sia quanto a valentia delle prime parti, sia quanto a coesione e bellezza di suono. Una compagine di gran classe che l’esperto John Axelrod ha diretto con precisione ed estrema cura dei dettagli, offrendo una lettura davvero emozionante di due pagine celeberrime, e dunque la fascinosa Prima Suite dalle musiche di scena per il Peer Gynt concepite da Grieg, poi il sommo Rimskij e il vasto affresco di Shéhérazade.
E dunque il nordico Grieg che peraltro – in apertura di suite – insolitamente evoca l’alba in un palmeto del Marocco, dunque attingendo a quel gusto per l’esotismo che permea di sé tanta musica di fine ‘800 e ancora primo ‘900, un’alba volta ad evocare la beduina Anitra dai conturbanti profili, invero non meno seducente della ‘gemella spirituale’, la colta e sensibile principessa Shéhérazade. Della pagina iniziale, il notissimo Mattino (Morgenstemning) Axelrod ha colto perfettamente lo spirito, giocando con abilità sulla dinamica, sulla calibrata veste timbrica e altro ancora. Poi ecco il pathos indicibile e davvero toccante del secondo pannello, La morte di Åse che spira tra le braccia del figlio Peer reso in tutta la sua cupa, desolante e inconsolabile tristezza. Raramente la pagina è accaduto di ascoltarla in una interpretazione di così alto profilo espressivo, in grado di restituirne tutta l’intima commozione, l’estenuazione, il raccoglimento e l’eleganza coloristica. Bene poi anche la non meno fascinosa Danza di Anitra e per finire la modernità dell’ultimo quadro (Nell’antro del re della montagna) dove si assiste ad una ridda di troll che da un lato sembrano guardare ancora agli elfi mendelssohniani, ma dall’altro paiono protesi sul Monte Calvo e, in alcuni tratti, addirittura preconizzano certo Novecento, per dire, l’ironia ed il grottesco di un Prokof’ev, con quel progressivo e calibrato crescendo che giunge all’irresistibile parossismo delle ultime misure. Ed è grazie alla policroma interpretazione da parte della Philharmonia, ovvero grazie alla sapiente concertazione e direzione di Axelrod, che tali dettagli sono emersi con lapidaria ed apodittica chiarezza. Chapeau.
Della ‘lettura’ della vasta (e notissima) suite sinfonica ispirata alle Mille e una notte, con quel gusto per il colorismo strumentale che del mago Rimskij è un vero marchio di fabbrica, occorrerà rimarcare l’interpretazione sapiente fornita da Axelrod, attento a delineare l’arco dell’intera partitura, ponendone in luce il climax, ma al tempo stesso curando nei minimi particolari, lavorando di bulino e di cesello sui colori e sui fraseggi, senza appunto mai perdere di vista il quadro complessivo. Un plauso speciale al primo violino, per aver disimpegnato con acribia ed espressività (oltre che con impeccabile bravura tecnica) il seducente tema della fanciulla, il leitmotiv posto ad incorniciare i quattro quadri, saldandoli l’uno all’altro. Quadri impregnati di esotismo, con l’esplicito ricorso – si sa – a temi folklorici georgiani, ceceni, caucasici e via dicendo.
Nel primo e così pure nell’ultimo quadro la presenza del mare con la sua forza impressiva era palpabile, verrebbe da dire immanente. E allora ecco i clangori degli ottoni e, da ultimo, il terrificante collassare della nave sugli scogli, un coacervo di emozioni indicibili che è sempre piacevole provare e riprovare. Ma non sono mancati i momenti ammirevoli anche negli altri movimenti; quanta grazia nel policromo secondo quadro (La storia del principe Calender) con gli sgargianti colori della sezione mediana; quanta dolcezza, poi, e – ancora una volta – quanta eleganza di sfumature per il terzo quadro che – detto per inciso – talora capita di ascoltare in esecuzioni eccessivamente dilatate e finisce per ingenerare una certa saturazione, quadro affrontato con mano assolutamente sicura, giù giù sino alle rapinose poliritmie della Festa a Bagdad. Una grande prova dell’orchestra, parsa tecnicamente agguerrita e possente, una compagine se non in assoluto tra le migliori al mondo, certo da collocare nell’empireo delle prime dieci o giù di lì. Ed è una gioia risentire dopo la cupa desolazione del periodo pandemico, i grandi complessi mondiali nelle nostre città.
In apertura di serata, come ormai di norma, grazie alla direzione artistica di Nicola Campogrande, una composizione fresca d’inchiostro (e si trattava di una prima italiana), ovvero The imagined forest della giovanissima Grace-Evangeline Mason (classe 1994). Una pagina piacevolmente eclettica, nel senso più alto del termine, con un’apprezzabile curva espressiva, scritta con grande competenza e mano già sicura nel trattare i colori dell’orchestra, ancorché forse eccessivamente dilatata e un poco dispersiva, ma sono peccati veniali più che comprensibili in una compositrice non ancora trentenne che ha già assimilato molto ed avrà tempo di maturare. In apertura echi di un certo post impressionismo (forse preso fin troppo sul serio) qua e là assonanze varie, anche una certa allusione (nella più animata e screziata parte centrale) a certi ritmi sudamericani (col ricorso allo xilofono) se non addirittura pseudo jazzistici che invero parevano un po’ straniti e incoerenti rispetto al resto, vagheggiamenti di stilemi etnofonici e altro: giù giù sino all’epilogo onirico e sognante. Ascoltando venivano in mente certe atmosfere evocate da Delius. Composizione invero piacevole che ha ben introdotto alle succulenti pagine in programma poi fatte seguire.
Da ultimo, graditissimo bis, la Polonaise dall’Onegin di Čajkovskij – per proseguire in ambito russo – che Axelrod ha diretto profondendovi una singolare energia ritmica ed una vivacità ammirevoli: senza eccedere e invero senza troppo compiacere al pur facile melodismo del brano, ma nel contempo cogliendo appieno l’esprit della pagina e il suo clima gioioso, effervescente. Una festa per gli occhi – nel vedere all’opera gli ottimi professori d’orchestra – e per le orecchie, nell’udire ancora una volta il suono luminoso e possente dell’organico. Applausi calorosissimi da parte di una platea per fortuna ritornata folta, dopo le dolorose ristrettezze della pandemia: preludio a un’edizione di lusso del Festival MiTo che si protrarrà sino al prossimo ventiquattro settembre con svariati appuntamenti, vuoi sul versante pianistico, vuoi su quello orchestrale, cameristico, sacro e via elencando, tutti di grande qualità e interesse. Ne riferiremo – in sintesi – nella prossima recensione. Stay tuned.