di Luca Chierici
Con un discreto successo è andato in scena alla Scala uno dei titoli più problematici della produzione operistica francese del secondo Ottocento, opera non nuova anche se di tardiva apparizione (1949) nel teatro milanese anche a causa di un non del tutto condannabile giudizio critico che ne relegava l’appartenenza al genere secondario dell’operetta.
In realtà questi Contes, a qualsiasi categoria li si voglia apparentare, rappresentano il felice risultato di un lungo e complesso lavoro da parte del loro prolifico autore, che merita sicuramente il successo e la frequenza con la quale il titolo stesso viene ovunque rappresentato. Sull’opera gravano però molte nubi che si possono collegare all’ineluttabile scomparsa dell’autore antecedente al completamento definitivo dell’opera, fatto questo che ha portato a una complicatissima vicenda di revisioni, aggiunte, tagli e riscoperte che invece di contribuire al chiarimento in vista di una versione critica definitiva non hanno fatto altro che rendere impossibile una realizzazione compiuta, tanto che le varie versioni oggi disponibili non sono esenti da aspetti negativi. Di questa situazione incresciosa ha pagato le conseguenze il direttore francese Frédéric Chaslin che è stato parzialmente contestato alla “prima” e non solo per una concertazione e direzione senza voli pindarici che si limitava a restituire in maniera onesta i lati migliori della partitura. Chaslin sarebbe stato anche corresponsabile nel non avere approvato certi dettagli delle revisioni più recenti e di avere quindi conferito il proprio sigillo a un’edizione troppo tradizionale. Ma come aveva già un tempo saggiamente notato Fedele D’Amico – l’osservazione è riportata nel magistrale saggio di Mario Bortolotto già presente nei programmi di sala scaligeri di diversi anni fa – “L’edizione tradizionale dei Racconti di Hoffmann è certamente difforme, e non poco, da quella concepita da Jules Barbier e Jacques Offenbach; ma il consenso di cui è stata circondata, il successo riportato presso milioni di spettatori ha pure un valore.”
Ciò detto, e ricordando anche la bella e lineare regìa di Robert Carsen dell’edizione 2012, abbiamo assistito a uno spettacolo che come spesso accade nel caso del regista Davide Livermore, era improntato a una sovrabbondanza di particolari, allusioni decisamente criptiche, dettagli secondari che rendevano del tutto incomprensibile l’impianto già di per sé molto complesso dell’opera offenbachiana. Non è facile, anche per chi conosca già i lineamenti di questi Racconti, seguire o meglio riconoscere i dettagli della sequenza di episodi che vanno a formare un intreccio affascinante quanto intricato e così differenziato. Sfido chiunque, digiuno degli elementi di conoscenza di base, a capire attraverso lo spettacolo di Livermore il senso degli accadimenti che si succedono sul palcoscenico. E all’impianto registico non giovano la artefatta realizzazione scenica del gruppo Giò Forma, le luci spesso accecanti di Antonio Castro e ancor di più le proiezioni (o “Teatro d’ombra”) della Compagnia Controluce. Scene di doppiaggio del protagonista da parte di un sosia narratore intento a redigere le memorie su una maccbhina da scrivere che a un certo punto persino si incendia, presenza di un nano con cappello a cilindro che accompagna i “malefici”, sovraffollamento di mimi in calzamaglia nera, scomposizione della bambola meccanica Olympie attraverso sezioni di arti che coprono parzialmente la figura “umana”, il solito, immancabile telefonino utilizzato da Hoffmann e compagni per discorrere-riprendere-messaggiare e, colpo di scena (?) un enorme telo nero che viene agitato al di sopra degli spettatori della platea centrale per dar loro l’impressione delle sovrastanti acque lagunari nell’atto veneziano: ossia una sommatoria di elementi che non aiutano certo lo spettatore a seguire nemmeno il filo musicale già di per sé contorto a causa dell’intreccio tra parti originali e aggiunte operate soprattutto da parte di Ernest Guiraud. Più comprensibile, ma anch’essa vittima dell’impianto generale, la scelta ricchissima di costumi voluta da Gianluca Falaschi.
Direzione musicale e impianto scenico-registico non hanno impedito ai protagonisti vocali di esibire le proprie qualità (anzi, nel caso di Chaslin va comunque notata la capacità di reggere gli interventi specifici con mano salda). La caratteristica ipercinetica del soggetto, resa ancor più tale dalla lettura di Livermore, non ha certo scoraggiato le sortite del protagonista, il tenore Vittorio Grigolo, che ha trovato in questo ruolo pane per i propri denti quanto a mobilità e gesticolazione. Dal canto suo, comunque, si è apprezzata ai massimi livelli una prova egregia di canto che lo ha portato per tre ore a farsi carico di un ruolo massacrante sempre con una qualità di voce integra e una interpretazione più che partecipativa alle caratteristiche mutevoli del personaggio. A lui va sicuramente il plauso maggiore per la perfetta rispondenza attoriale e vocale, seguito a ruota dall’incarnazione della Musa e di Nicklausse da parte della versatilissima Marina Viotti e dalla sicura e assertiva interpretazione di Luca Pisaroni dei quattro “personaggi diabolici”. Per fortuna non si parlava qui di affidare ad un’unica voce tra il mezzosoprano e il soprano acuto i tre ruoli principali di Olympia, Antonia e Giulietta. Impresa oggi impossibile, che è stata equamente divisa tra: Federica Guida, non perfetta in quanto a qualità di voce nelle famose parti di agilità (peraltro in tono e non abbassate come qualcuno sospettava); Eleonora Buratto, magnifica interprete del difficile ruolo di Antonia nonostante una indisposizione annunciata all’ultimo momento; e Francesca Di Sauro, Giulietta molto estroversa. Bravi i comprimari, con l’eccellenza di Alfonso Antoniozzi, credibilissimo Luther. Successo convinto, a parte le contestazioni – per noi poco spiegabili – rivolte al direttore e qualche isolato mugugno nei confronti di Livermore e della sua compagnia. Premiato come sempre l’apporto del Coro diretto egregiamente da Alberto Malazzi.