di Attilio Piovano
Un lavoro di scavo davvero eccellente, quello compiuto dal giovanissimo Riccardo Bisatti sulla ponderosa e tecnicamente impervia partitura di Powder Her Face dall’incessante mutevolezza ritmica e timbrica, dovuta al poco più che cinquantenne Thomas Adès (letteralmente Incipriale il viso, titolo nel quale è peraltro implicito un sottile e allusivo substrato per così dire semantico, malizioso e ammiccante).
Partitura con la quale, a Torino, la sera dello scorso 10 marzo 2023 si è ‘celebrata’ la riapertura del Piccolo Regio ‘G. Puccini’ (cinque le recite sino al 18 marzo, con un pubblico mediamente di giovani, ma non solo). Una partitura variegata e complessa approdata per la prima volta sotto la Mole grazie a un nuovo, assai elegante allestimento del Teatro Regio che regala non poche emozioni: partitura della quale l’appena ventiduenne Bisatti – solidi studi e un’assai più che promettente carriera direttoriale (oltre che pianistica e cameristica) ormai avviata da tempo – ha saputo porre in luce le più riposte valenze; concertando con cura e precisione estrema, fin nei minimi dettagli, ma senza nel contempo mai perdere di vista lo sguardo d’insieme. Sicché è emerso al meglio il vistoso (e beninteso intenzionale) gap linguistico che caratterizza la partitura stessa: laddove il primo atto presenta una scrittura paratattica, dalle riconoscibili e pur apprezzabili assonanze (da Cole Porter a Strauss a Britten evidente nel passo in cui la giornalista intervista la duchessa e i timbri mixati all’arpa ne evocano The Turn of the Screw e via elencando), mentre il second’atto si presenta assai più fluido privilegiando la continuità, con una scrittura a fasce assai meno frammentata, sì da porre in luce l’estrema melanconia della protagonista e di fatto la solitudine entro la quale dilaga la sua chiacchierata e scandalosa vicenda.
Già, perché l’opera, frutto giovanile del futuro autore di The Tempest (2004, di recente andata in scena alla Scala) – rappresentata per la prima volta nel 1995 ed eseguitissima in tutto il mondo in questi decenni, di fatto una delle opere contemporanee più rappresentate in teatro, della quale esiste altresì una versione cinematografica – è fondata su un spunto reale: vale a dire le burrascose vicende biografiche, o più propriamente lo scandalo legato alle disinibite performance sessuali da parte di Ethel Whigham Duchessa di Argyll, accusata, processata e condannata per adulterio e atti osceni nell’Inghilterra perbenista degli anni ‘60 del ‘900, poi vissuta fino a tarda età, dopo il divorzio dal secondo marito Ian Douglas Campbell, undicesimo duca di Argyll, consumando per intero le proprie sostanze, sino a venire ‘sfrattata’ dall’albergo: il Grosvenor House Hotel, dove visse lunghi anni in solitudine, dal 1978 al 1990, prima di venire internata in una casa di cura per gli ultimi tre anni della sua sfortunata esistenza. Una donna sola, per l’appunto, ormai abbandonata da tutti, dimentica dell’incredibile lista di ben ottantotto presunti amanti evocati dal giudice, nonché indifferente, così parrebbe, al ricordo di quelle piccanti polaroid che erano state alla base del clamore, ingigantito dai tabloid britannici, allo scopo di ‘vendere’, attizzando i pruriti delle masse, una donna ‘malata’ che sembra non comprendere bene quanto le accade attorno, volta a rimpiangere oniricamente la sua riconosciuta antica bellezza e la sua condizione ben più che di benestante.
Bisatti, per quest’opera suddivisa in otto scene interpuntate da veri e propri interludi, ha potuto contare su un cast di prim’ordine, con artisti di notevole levatura e pur giovanissimi: la partitura richiede infatti doti vocali e così pure attoriali non comuni da parte dei protagonisti (ai quali è richiesto inoltre di interpretare più di un personaggio) per dar corpo ad un libretto – quello posto in atto da Philip Hensher – talora eccessivamente dilatato, non senza alcuni momenti sul piano squisitamente drammaturgico di relativo ristagno (la scena del duca e della cameriera è estremamente lenta), indugi per lo più evitati mercé la regia ironica, sapiente, lieve e profonda nel contempo di Paolo Vettori, cui accenneremo più oltre.
E allora: l’ottima Irina Bogdanova che ha giganteggiato nel ruolo della duchessa dalla proteiforme figura, dando voce a un personaggio che evolve sì, pur restando talora come ‘estranea’ a se stessa (di spicco la timbrica raggelata quando comprende di essere stata condannata); ottima poi e meritatamente ammiratissima Amélie Hois alla quale era richiesto di interpretare ben sei personaggi (la cameriera dell’Hotel, ma anche l’amica, la cameriera che prepara il ricevimento, l’amante del duca, la ficcanaso e la giornalista di cronaca rosa), soprano leggero dalla vocalità fresca e duttile e dalla presenza scenica davvero ammirevole, abile nell’affrontare con sbarazzina spregiudicatezza i vari momenti dell’opera stessa (sul piano vocale ha passaggi di incredibile difficoltà quali il lungo monologo della cameriera, timbricamente molto interessante). Cinque i ruoli assegnati al tenore Thomas Cilluffo (l’elettricista, il gigolò, il cameriere, il ficcanaso e il fattorino), tenore dalle pregevoli doti vocali: tutti interpreti, quelli citati, facenti parte del Regio Ensemble, community di artisti in residence al Regio. A completamento del cast il non meno valido e davvero versatile Lorenzo Mazzucchelli: basso dalla voce esperta e dalle capacità vocali metamorfiche (sì da affrontare falsetti, ruoli ironici se non buffi e altro ancora), di volta in volta nei panni di Direttore dell’Hotel, del Duca, ma anche dell’addetto alla lavanderia, di un ospite dell’albergo e soprattutto del giudice ipocrita e perbenista: la cui vocalità ricorda curiosamente il grande albero ferito del raveliano Enfant et les sortilèges (idem dicasi dei glissandi di flauti disseminati qua e là).
Un’opera in cui c’è spazio per un singolare mix di scandalo ed erotismo (ma la musica di Adès – occorre ammetterlo apertamente – non possiede certo la sensualità di uno Strauss o un Bizet, e nemmeno lontanamente la vis erotica della premiata ditta Mozart-Da Ponte), falso moralismo, gossip, decadimento morale e voyeurismo, doppia morale (pubblica e privata) da parte di una società bigotta e falsa. Ne è emerso uno spettacolo di gran classe, ed è un merito del regista Paolo Vettori, poco più che trentenne aver saputo trattare con mano felice una materia scivolosa che facilmente poteva scadere nella volgarità o peggio ancora nel kitsch. Vettori ha saputo infondervi ironia ed eleganza, destreggiandosi tra doppi sensi, travestimenti e colpi di scena, infondendo dinamismo anche laddove il libretto langue (imbarcandosi in inutili e debordanti digressioni), anche quando la musica rischia di farsi vagamente ripetitiva, senza peraltro mai affastellare la scena di inutili o eccessive trouvailles. Tutto era perfettamente al suo posto, nulla di troppo.
Un plauso specialissimo a Claudia Boasso per aver concepito una scena di fatto unica, ma aperta a singolari metamorfosi. E allora, pareti claustrofobiche e “quasi manicomiali” a rendere le psicosi e le nevrosi della protagonista, con porte che si aprono, al momento giusto, su ben quattro immortali polaroid erotiche del geniale e poliedrico Mollino riprodotte in grandi dimensioni, grazie alla collaborazione con Casa Mollino (in questo scorcio di 2023 si celebra il 50° della ricostruzione del Teatro Regio, capolavoro assoluto dell’arte molliniana). Non solo, in scena sono stati sapientemente recuperati reperti di una Clemenza di Tito di alcuni anni fa, insolitamente ambientata negli Anni Trenta del ‘900, e allora ecco fascinosi arredi Art Déco; uno spettacolo di gran classe, si diceva, dove financo la scena clou (obiettivamente scabrosa) della fellatio da parte della protagonista, manteneva un suo ‘decoro’ – sia consentito affermarlo – inscrivendosi perfettamente nel contesto (si trattava pur sempre di un allestimento la cui visione era sconsigliata a un pubblico minore di 16 anni): uno spettacolo insomma governato con mano sapiente per l’appunto da Vettori, apprezzato deus ex machina in grado di muovere le fila con maestria, consapevolezza e souplesse, ottimamente retto sul versante musicale – merita ribadirlo – dallo scrupoloso Riccardo Bisatti che ha lavorato magnificamente di cesello e di bulino sul piano timbrico, ponendo in luce iridescenze ed asprezze, assonanze, allusioni (c’è perfino certo Piazzolla) citazioni e quant’altro: molto efficace è parsa l’ultima parte del monologo della Duchessa dove la musica si fa elegiaca e trasognata nel rievocare la governante.
Non certo secondario l’apporto di Gianni Bertoli, sul côté delle luci, molto belle ed azzeccate: ora azzurre, rosa cipria, ora violacee, a sottolineare con destrezza i vari piani drammaturgici dello spettacolo. Un esempio fra i molti: le luci si fanno violente e verde acido quando si annuncia alla Duchessa che l’auto è pronta, prima che prenda corpo uno stranito interludio.
Molto apprezzati i costumi di Laura Viglione che hanno non poco contribuito a rendere con efficacia e immediatezza i continui flash back previsti dal libretto (un vero e proprio excursus dagli Anni ‘30 agli Anni ‘70, ma con un prologo e un epilogo negli Anni ‘90) e che, grazie altresì alla presenza dei sopratitoli su due schermi (pur sotto dimensionati), ai lati del palco, hanno permesso di venire decrittati con chiarezza, oltre che rendendo agevole seguire il testo, cantato ovviamente in lingua inglese. E allora: valida l’idea del cambio a vista e di indicare il 1934 su un paravento; così pure assai efficace è parso far scrivere 1970 e poi ‘correggere’ in 1990 con un rossetto sullo specchio. Un dettaglio: il letto senza più i cuscini con i fiori a lato pareva un catafalco e la musica si faceva funerea. Da ultimo citiamo l’ensemble cameristico dell’ottima Orchestra del Regio, costituito da vere e proprie prime parti solistiche, chiamate ad affrontare e ottimamente disimpegnare una partitura di inusitata difficoltà: una partitura finalizzata a ‘illustrare’ l’intreccio dei ricordi, ovvero la sequenza delle vicende biografiche della Duchessa, quasi una serie di istantanee dall’innegabile immediatezza.
Gran successo per tutti e applausi copiosi a fine di ogni recita. E non è cosa di tutti i giorni, trattandosi di musica contemporanea per la quale il pubblico – a priori – nutre sempre diffidenza e sospettosa cautela. Un punto a favore di direttore, regista, scenografa e dell’intero cast, per uno spettacolo di successo del quale conserveremo a lungo gradita memoria.