di Attilio Piovano
Un Flauto magico davvero molto singolare (a dire il vero fin troppo, e cercheremo di darne conto), quello approdato al Teatro Regio di Torino la sera di venerdì 31 marzo 2023 e poi replicato, con doppio cast di giovani interpreti, sino allo scorso 14 aprile, per complessive dieci recite, cui occorre aggiungere l’affollata anteprima giovani del 30 marzo.
Si è trattato dell’allestimento (ormai storico e, a suo modo, datato) proveniente dalla Komische Oper Berlin a cura di «1927» (Suzanne Andrade e Paul Barritt) giunto per la prima volta a Torino: ideazione di Barrie Kosky e animazioni di Paul Barritt, ripresa odierna della regia da parte di Tobias Ribitzki, scene e costumi di Esther Bialas.
Enorme il successo di pubblico, occorre ammetterlo, e non solo decretato dai molti giovani che allo spettacolo hanno tributato festosi e acritici consensi, ma anche da parte di un pubblico più maturo, ragionevolmente avvezzo a ben più ‘consapevoli’ allestimenti, soprattutto di ben altro spessore drammaturgico, che ha di fatto alquanto sopravvalutato, quanto meno a nostro modesto avviso, l’avventata operazione esperita. Un allestimento che ha potuto venire etichettato quale vera e propria «esperienza immersiva»; a prevalere, almeno nelle premesse, avrebbe dovuto essere uno spettacolo dalle suggestioni ‘oniriche’ nel quale in un curioso, sincretistico e spesso fuorviante mix, si mescolano proiezioni ispirate al cinema muto (sicché Monostato viene visto quale Nosferatu mentre Pamina «ha qualcosa di Louise Brooks»), linguaggio dei fumetti a altro ancora: per dire, qualcuno nella ridda di epoche storiche e tratti grafici ci ha visto perfino un vago riferimento al fantasioso, singolare e onirico film in 3d di Scorsese Hugo Cabret (2011).
Quale l’assunto di chi ha ideato questo allestimento? Divertire senza porre al pubblico troppi problemi e impicci circa le valenze massoniche e concettuali che sono invece immanenti e per così dire ineludibili in Zauberflöte. E allora via i dialoghi in tedesco che obiettivamente suscitano sempre perplessità da parte di un pubblico ignaro della lingua (ma esistono i sopra titoli e si rivelano perfettamente funzionali), un profluvio di trouvailles visive, una ridda di immagini proiettate sullo schermo (ma attenzione, il teatro è azione live, il cinema è altra cosa), una quantità inverosimile di invenzioni che di fatto si rivelano ipertrofiche, ‘saturando’ ben presto, infastidendo la mente dello spettatore e di fatto – absit iniuria verbis – ingenerando la noia nella loro imprevedibile prevedibilità (ci si passi l’ossimoro) già dopo la prima mezz’ora. Ne risulta uno spettacolo che fa sorridere per certi tratti obiettivamente ironici (la scena del duetto dei Papageni, col proliferare di pargoli in stanze, corridoi e perfino in bagno), talora suscitando financo grasse risate, ma un allestimento che rispetto al Flauto magico mozartiano è altra cosa. Taluno dopo un po’, per non farsi troppo distrarre dall’incombente aspetto visuale e iper cinetico del tutto, ha provato il desiderio di chiudere gli occhi concentrandosi sulla sola, sublime musica, venendone però disilluso per i tempi singolari impressi alla partitura, per una sorta di scollamento endemico, fatto salvo il quasi perfetto sincrono tra cantanti in carne ed ossa, ingessati e immobili come in una esecuzione in forma di oratorio, e le immagini con le quali interagiscono sì: ma il guaio è che non si vedono tra di loro, essendo posizionati in maniera per così dire bidimensionale sullo schermo e questo genera talora incertezze e incongruenze.
E a proposito di incongruenze, valga per tutti l’esempio del tentativo di suicidio da parte di Papageno; risate a non finire per il disegnino dell’impiccato, come facevamo da bambini nel gioco puerile, ma aver del tutto omesso la scena della vecchina che si trasforma in una bellissima e fascinosa fanciulla (deposti gli abiti entro la botola di cui era dotato il teatro di Shikanedere) e subito viene sottratta alla vista di Papageno, rende a dir poco incomprensibile il tentativo di suicidio per chi (paradossalmente) non conoscesse la trama; ed è venuto meno anche il gioco di parole (in tedesco) circa l’età della ragazza, Papageno comprende 80 ma sono 18 i suoi anni. E Monostato / Nosferatu e Pamina distesi su un letto matrimoniale, come una coppia annoiata incerta se fare l’amore o spegnere la luce e dormire? Laddove Pamina dovrebbe stare sotto i raggi argentei della luna, simbolo massonico della femminilità… E che dire degli armigeri trasformati in innocui borghesi, resi sessualmente ambigui con quelle gambone da ballerine di avanspettacolo in giarrettiere? E la consegna del flauto? Strumento non pervenuto. E il carillon che si muove con zampe di ragno? E la Regina della notte diventata un aracnide minaccioso? E le fondamentali tre porte (Natura, Ragione e Saggezza)? Chi le ha viste, o anche solo immaginate? E la totale mancanza di empatia nel momento sublime in cui Papageno e Tamino si scoprono sodali, immersi nel buio, al solo suono del flauto e della siringa di Pan? Totalmente eluso. E quell’altro passo eccelso in cui i genietti impediscono a Papageno il suicidio, e Mozart inserisce una mirifica modulazione che immette direttamente nel duetto di estatica bellezze Pa-Pa-Pa-Pa? Risultato interrotto dal fragoroso scoppio di una bomba da fumetti a simboleggiare l’amore (ma lo si capiva anche senza tale ingenuo espediente) e il boato ha risuonato per svariati secondi in tutto il teatro. Inaccettabile e, si permetta, anche un po’ stupido come effetto. L’elenco potrebbe venire implementato a lungo, ma risulterebbe stucchevole farlo.
Insomma un Flauto magico che ha finito per privilegiare (anzi no: per evidenziare) un solo aspetto, quello fiabesco ridanciano tipico di certo Singspiel. Ma Zauberflöte, si sa, è ben altro e ben di più. E allora anche le tradizionali categorie critiche con le quali si è soliti valutare uno spettacolo vengono meno. Occorre porre in atto una bussola, per orientarsi, con riferimenti altri rispetto ai consueti punti cardinali. Difficile, per dire, valutare la prestazione dei cantanti (impossibile delinearne la ‘presenza scenica’ per le ragioni addotte sopra).
Un cast mediamente di buon livello, quello assemblato, con una Gabriela Legun che ha ben disimpegnato il suo ruolo la sera della prima (ma la sua celebre aria patetica l’avremmo voluta con suoni filati più delicati e maggiore attenzione alle dinamiche); Joel Prieto (Tamino) ha fatto del suo meglio, pur mortificato da una regia sciagurata; idem un Papageno, quello di Alessio Arduini che ha finito, per quanto appaia assurdo e contraddittorio, per perdere buona parte della sua verve comica entro uno spettacolo di tal fatta; ammirata Serena Sáenz quale Regina della notte nelle sue due arie impervie, anche se ci si aspettava qualche brivido in più; poco convincente, laddove deve scendere ad una fa grave, il Sarastro di In-Sung Sim che pure era così in alto e lontano sulla scena che risulta difficile valutarne con correttezza la resa vocale. Apprezzata sul piano vocale Amélie Hois nei panni di Papagena, pur con tutti i limiti registici cui si è accennato. Bene vocalmente le tre dame impersonate da Lucrezia Drei, Ksenia Chubunova e Margherita Sala (ma la loro presenza a livello drammaturgico risultava scipita se non risibile) e molto bene le voci bianche soliste ovvero i tre genietti affidati a Viola Contartese, Flavia Pedilarco, Alice Gossa (appartenenti al coro di voci bianche del Regio istruito da Claudio Fenoglio), un po’ monocromo, ma pur corretto il Monostato del valido e in altre occasioni assai apprezzato Thomas Cilluffo.
E ancora: perché mai insistere inserendo spezzoni della mozartiana Fantasia K 397 sublime exemplum di pathos ben più che pre romantico, in passaggi dove risulta stranita, contraddittoria e, per dira tutta, assolutamente fuori luogo? Difficile rispondere.
Dal podio il pur diligente Sesto Quattrini ha fatto tutto il possibile per tenere insieme lo spettacolo dal bislacco incedere, e di fatto certi tempi (per dire lo ‘schizzato’ «Evviva Sarastro, Trionfi Sarastro» preso ad una velocità quasi da comica finale) non erano verosimilmente imputabili soltanto a sue personali scelte, bensì pesantemente condizionate dal ‘ritmo’ visivo dell’allestimento stesso, a partire dall’iniziale controfigura di Buster Keaton alias Papageno che pare correre verso il nulla (sicché pochi pongono attenzione alla sublime Ouverture che scorre via al ritmo della corsa di Buster Keaton scivolandoci addosso come l’acqua della doccia mattutina).
Buona la prova fornita dall’Orchestra del Regio, ancorché nessuno invero vi si sia soffermato più di tanto ad ascoltarne il suono, troppo presi e distratti come si era dall’aspetto visuale dello spettacolo. Bene, come di norma, il Coro istruito da Andrea Secchi.
Insomma uno spettacolo del quale, come spesso accade di scrivere, conserveremo a lungo memoria, ma – questa volta – per la sua stranezza e, in conclusione, per la sua palese quanto intenzionale (e legittima, per carità) omissione di aspetti fondamentali nella messa in scena del capolavoro mozartiano. Un’occasione perduta? Verosimilmente sì.