di Cesare Galla
Portare in scena Les Contes d’Hoffmann è sempre una sfida. Non solo perché si tratta di un’opera nella quale l’elemento fantastico domina il racconto fino a sfociare nell’esoterico, comprensivo di qualche sapiente tocco di orrore, bilanciato da una certa vena caricaturale.
Ma anche perché la partitura di Jacques Offenbach è stata sottoposta nel tempo a una serie di aggiustamenti e modifiche strutturali probabilmente senza eguali nella storia del teatro per musica. Il compositore non aveva fatto in tempo a completarla prima di morire nell’ottobre del 1880, e i cambi cominciarono fin dalla prima rappresentazione, avvenuta il 10 febbraio dell’anno seguente. Nemmeno l’edizione critica curata da Fritz Oeser nel 1977 ha chiuso la questione e stabilito definitivamente quale sia la versione esecutiva principale. Gli studiosi continuano a lavorare su un giacimento musicale che sembra inesauribile, gli esecutori ad adottare soluzioni musicali e rappresentative diverse.
Se non altro, a differenza di quel è accaduto nei primi tempi, ora è sempre rispettata la disposizione delle parti pensata da Offenbach. L’atto più drammatico – quello nel quale la giovane Antonia muore, uccisa dal suo amore per il canto e dalla terrificante presenza di un medico demoniaco, che evoca la mamma morta della fanciulla e con tipica ironia offenbachiana porta il nome di Docteur Miracle – si colloca al centro dell’opera. Lo precede quello in cui è protagonista la bambola meccanica Olympia, dalla vertiginosa vocalità: l’automa viene distrutto dal malvagio Coppélius, che si ritiene truffato dall’inventore e così facendo distrugge anche il sogno di Hoffmann. Lo segue – portando verso la conclusione – l’atto cosiddetto “veneziano”, in cui la cortigiana Giulietta si fa beffe dello scrittore innamorato. Fondamentali nella sofisticata struttura metateatrale di un lavoro nel quale il personaggio principale è anche l’autore delle storie che vengono rappresentate, sono il Prologo e l’Epilogo. Servono a chiarire il tema dell’opera – in assoluta sintesi, il confronto complicato fra vita e arte, fra realtà e immaginazione, fra desiderio e creatività – e a disegnarne in qualche modo il lieto fine, che assomiglia più che altro a una sorta di imperativo morale: la poesia deve prevalere sull’amore, sempre ingannevole per quanto seducente e vitale esso appaia.
Dopo quasi trent’anni, Les Contes d’Hoffmann sono tornati alla Fenice, posti a inaugurare la stagione ’23-’24 nell’allestimento firmato da Damiano Michieletto, una coproduzione planetaria che ha debuttato la scorsa estate a Sydney e che vede impegnati insieme al teatro australiano e a quello veneziano anche la Royal Opera House di Londra e l’Opéra di Lione. Non bastasse la complessità di Offenbach, il regista veneziano propone uno spettacolo fin troppo carico di allusioni visive anche brillanti e intriganti, ma spesso fini a sé stesse, lontane da una linea narrativa in grado di dipanare con chiarezza la drammaturgia del musicista franco-tedesco. L’intenzione sembra piuttosto quella di realizzare una sorta di rivista sofisticata e incline alla caricatura, che finisce per lasciare l’elemento misterioso come cornice e non come inquietante nucleo espressivo, quale ci pare esso sia.
All’inizio, l’Hoffmann di Michieletto – qui affiancato dalla squadra dei più fedeli collaboratori: Paolo Fantin per le suggestive scene moderniste che disegnano spazi a diverse altezze, Carla Teti per i brillanti costumi e Alessandro Carletti per le luci – è una specie di barbone male in arnese, fin troppo incline ad alzare il gomito, insolentito dagli avventori della spoglia taverna di Luther e oggetto di sarcasmo perché è perdutamente innamorato della diva che sta cantando il Don Giovanni nel vicino teatro.
Il triplice racconto delle sue paurose disavventure amorose si dipana secondo una singolare visione che le collega a tre diverse età dell’uomo, fuori da ogni specifica caratterizzazione d’epoca, in una sorta di presente indeterminato. E dunque, nel primo atto Hoffmann è un ragazzo ancora con le brache corte quando si invaghisce della bellissima Olympia. Per questo, il laboratorio dello scienziato Spalanzani diventa una classe di scuola e la funambolica aria di lei è una specie di danza dei numeri che dalla lavagna finiscono per occupare tutto lo spazio. Anche nel Flauto magico, proprio alla Fenice nel 2015, Michieletto aveva ambientato la storia in una scuola e c’era una lavagna magica: corsi e ricorsi nella narrazione del fantastico.
Nel secondo atto, Hoffmann diventa un giovanotto ormai maturo che non vuole rinunciare all’appassionata Antonia, in realtà condannata dalla sua insopprimibile vocazione per il canto, ereditata dalla mamma morta. Qui la presenza del demoniaco è giocata in chiave più incisiva (e meno pop) di quel che accadeva nel primo atto ma l’accento finisce comunque per essere quello della caricatura: al centro della narrazione scenica c’è il servo sciocco Frantz, trasformato in un “maître de ballet”. Ci si trova ancora una volta in una scuola (questa volta di danza) e lui è preso in giro dalle sue stesse allieve (la coreografia è di Chiara Vecchi; menzione speciale per le divertite giovanissime che volteggiano intorno a lui). Ma danzatrice figura essere anche la mamma morta, e insomma le carte s’ingarbugliano rispetto al testo di Jules Barbier, il librettista, e soprattutto rispetto alla musica, la più fascinosa e inquietante dell’intera partitura. Infischiandosene dei fouetté, il terribile Docteur Miracle finisce per condurre nella tomba anche la povera Antonia.
Nel terzo atto, peraltro piuttosto nettamente tagliato, Hoffmann è un ormai maturo “bon vivant” senza più illusioni, che si aggira in una sorta di locale notturno equivoco che potrebbe essere dovunque anche se la musica – a partire dalla celeberrima “Barcarolle” di apertura – s’incarica di specificare che ci si trova a Venezia. La bellissima Giulietta si fa beffe di lui e lo fa finire prigioniero dietro a uno specchio, marchiato con una X sul petto nudo. Viene così attuato il desiderio del perfido Dapertutto, che aveva chiesto alla cortigiana di procuragli il “riflesso” dello scrittore.
L’Epilogo è un gran finale che ammassa personaggi, comprimari e figuranti di ogni ordine e grado (con in bella evidenza, naturalmente, i tre diavoli abbigliati di sgargianti lustrini, onnipresenti fin dall’inizio) in un allegro caos un po’ alla Hellzapoppin’. L’amico e mentore di Hoffmann, Nicklausse, fin dall’inizio rappresentato come una sorta di spiritello benigno con tanto di alucce colorate, ripone nella borsa della Musa il pappagallo dal quale si era fatto accompagnare. Il bieco Dapertutto, ultima incarnazione del Male e rappresentante dei perfidi “colleghi” incontrati negli atti precedenti, riappare nell’abito da gran sera dell’irraggiungibile diva Stella, in un tocco di “queer”.
Dal punto di vista musicale, l’esecuzione era affidata alla bacchetta di Frédéric Chaslin, che definire un super-esperto della partitura (e delle sue metamorfosi) è perfino poco, visto che nella sua carriera – ha dichiarato – l’ha diretta 732 volte. Non senza annotare il simbolico particolare che la sua prima volta è stata proprio a Venezia, nel 1994. Da allora, in media 25 volte ogni anno. In questi casi il rischio è la routine, alla quale Chaslin ha concesso qualcosa, non troppo. I colori, che peraltro non sono di Offenbach ma di Ernest Guiraud, che realizzò la strumentazione dopo la sua morte, erano precisi, il fraseggio un po’ generico, sia sul versante brillante che su quello drammatico, le dinamiche sufficientemente espressive, i tempi adeguatamente stagliati. Anche musicalmente, il mistero è rimasto abbastanza sullo sfondo.
Note del tutto positive per la compagnia di canto. Rispetto a una tradizione esecutiva abbastanza consolidata (ma anche qui, non fissata), solo le parti dei malvagi (Lindorf, Coppélius, Miracle e Dapertutto) erano affidate allo stesso cantante, un Alex Esposito magistrale sia dal punto di vista vocale – colore fascinoso, linea di canto in perfetto stile – che per quanto riguarda la duttilità attoriale richiesta da Michieletto. Interprete unico anche per le parti caricaturali: Andrès, Cochenille, Frantz e Pitichinaccio hanno avuto nel tenore Didier Pieri una caratterizzazione sapiente e saporita, particolarmente incisiva nell’ampia aria del secondo atto (quella con le danzatrici). In questa edizione, tutte esecutivamente distinte le parti femminili. Rocío Pérez ha padroneggiato con disinvoltura l’ardua tessitura di Olympia, forse sacrificando qualcosa del suo interessante colore nella zona sovracuta; Carmela Remigio ha offerto una prova di impeccabile musicalità sul versante drammatico, disegnando una Antonia di patetica passione; Véronique Gens ha proposto una Giulietta altera e di notevole eleganza. Nicklausse era Giuseppina Bridelli, timbro raffinato e fraseggio sempre espressivo.
Al debutto nel ruolo del titolo, il tenore Ivan Ayon Rivas si è destreggiato con sufficiente disinvoltura scenica e apprezzabile incisività vocale, salendo facilmente all’acuto e padroneggiando con efficacia una parte nella quale lo stile romantico francese già si avvicina a un realismo più ficcante, di forte impatto drammatico. Fra i comprimari, da segnalare Paola Gardina (una misurata Musa), François Piolino (stralunato Spalanzani) e Francesco Milanese (burbero Luther). Ottimo, sia scenicamente che per duttilità vocale ed omogeneità, il coro istruito da Alfonso Caiani.
Teatro esauritissimo nella serata inaugurale alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Alla prova generale, cui si riferiscono queste note, vivissimo apprezzamento da parte del pubblico.