Cinque domande al celebre pianista napoletano impegnato questa estate nei corsi di perfezionamento di Villa Pennisi in Musica
di Francesco Fusaro
Per chi ama il grande repertorio pianistico, Michele Campanella non necessita di presentazioni. In oltre quarant’anni di carriera il musicista partenopeo ha infatti ricevuto importanti riconoscimenti internazionali (citiamo i Gran Prix du Disque conferitigli dalla società “Franz Liszt” nel 1976, 1977 e 1998), inciso per note case discografiche (fra le altre Emi, Philips, Foné), collaborato con grandi direttori d’orchestra (Claudio Abbado, Riccardo Muti, Zubin Mehta, Esa-Pekka Salonen). All’attività di interprete ha affiancato nel tempo quelle di insegnante (è stato titolare della cattedra di pianoforte all’Accademia Chigiana di Siena dal 1986 al 2010) e di scrittore (il recente libro dedicato a Franz Liszt edito da Bompiani).
Nel suo volume Il mio Liszt lei ha tentato di offrire una prospettiva diversa – non soltanto in termini di interpretazione ma anche di ascolto – su uno dei più importanti compositori del periodo romantico, spesso percepito dal grande pubblico solo attraverso la lente del virtuosismo. Crede che bisognerebbe approfittare delle celebrazioni debussyane per procedere ad una operazione simile, tenendo ovviamente conto dello specifico del compositore francese? Se sì, quale aspetto analitico andrebbe secondo lei privilegiato? «Lo stato dell’interpretazione lisztiana è ben diverso da quello della musica di Debussy: al pianismo del primo si avvicina la stragrande maggioranza dei giovani esecutori con l’ambizione di competere con il più grande pianista della storia, quindi in una fase adolescenziale. Alla musica di Debussy si avvicinano gli strumentisti maturi, attratti certamente non dall’esibizione muscolare ma dalla ricerca di sonorità specifiche. Debussy affascinerà sempre i pianisti più sensibili e non avrà bisogno che di una fondamentale puntualizzazione. Il Debussy giovanile è tardo romantico alla francese, quello maturo e consapevole della propria personalità, impressionista; quello tardo, simbolista. Le tre fasi hanno bisogno di diversi approcci, sia sintattici sia timbrici. Si tende, per semplice ignoranza, ad appiattire Debussy al suono impressionista, ovvero opaco e “leggero”. Ovviamente è giusto, ma non esso può coprire l’intero arco creativo del compositore francese».
Nello stesso volume non sono pochi i parallelismi creati tra le questioni musicali e le probematiche estetiche afferenti ad altre discipline. Quanto può essere d’aiuto, nel perfezionamento della propria poetica interpretativa, la confidenza con altri campi del sapere umano? «Mi rendo conto di essere parte di una minoranza che considera l’interpretare un atto culturale. In un lontano 1976, alla mia prima tournée in Giappone, osai dire in conferenza stampa che la musica di Beethoven richiedeva l’approfondimento della filosofia di Kant e degli idealisti. Fui deriso. Ma non ho cambiato idea. Moltissime intuizioni vengono dalla frequentazione di altre arti, di altri strumenti musicali, della voce e della recitazione. Avere a disposizione della propria visione un ampio spettro di esperienze umane nel campo dell’arte non può che arricchire le prospettive interpretative. Ne sono profondamente convinto».
La musica classica sta vivendo un periodo di passaggio generazionale molto importante. Qual è la sua sensazione al riguardo e quali le sue impressioni sulle nuove generazioni di ascoltatori e di esecutori? «Le mie esperienze didattiche non sono molto positive: i giovani hanno fretta e sono influenzati dall’idea che assommando esperienze diverse e contradditorie si possa ricavarne una sintesi. A questa ipotesi non credo. Penso che la musica avrà nel futuro sempre più necessità di una preparazione accurata e una mentalità d’élite. Quindi una riduzione della platea degli studenti di livello, in netta distinzione con la massa dei candidati pianisti».
Lei sarà tra i docenti impegnati nei corsi di perfezionamento di Villa Pennisi a Catania. Quali sono gli aspetti della tecnica pianistica e dell’interpretazione del repertorio che le stanno maggiormente a cuore in qualità di didatta? «Impossibile dirlo in due parole: posso tentare uno slogan. La preparazione tecnica è sempre e in ogni caso al servizio dell’idea musicale: senza quest’ultima il virtuosismo è un’esibizione stupida. Le due cose devono quindi camminare in modo parallelo ed omogeneo. Prima di parlare della musica da eseguire occorre guardarsi suonare e analizzare i propri atteggiamenti nei confronti dello strumento e dell’ascolto».
Un’ultima curiosità che esula dalle questioni musicali. Nel suo libro L’uovo alla kok Aldo Buzzi ha detto: “Il vero cuoco non assaggia, è un po’ come il pianista che suona senza guardare la tastiera”. Le piace la cucina? È un buon cuoco? «Sono un pessimo cuoco, ma apprezzo la cucina come una necessità primaria che in qualche occasione è in grado di trasformarsi in arte».
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