In scena al teatro Regio di Torino il titolo di Rossini. Convince la direzione di Rustioni, Nino Machaidze debutta nel teatro torinese. Nel complesso non piace la regìa di Christopher Alden
di Attilio Piovano
L’ultima volta, al Regio di Torino, il rossiniano Turco in Italia era apparso a dicembre del 2005 e sono trascorsi quasi dieci anni, nell’allestimento del Comunale di Bologna del 1994, ottimamente diretto da Corrado Rovaris: nel cast di allora Eva Mei e Michele Pertusi. In precedenza al Regio non lo si vedeva addirittura dal 1971 quando lo aveva diretto nientemeno che il grande Vittorio Gui (con Sesto Bruscantini). Ora, a partire dallo scorso 12 marzo 2015 (per nove recite e con un doppio cast), è riapparso per la terza volta in oltre quarant’anni, in un nuovo e discutibile allestimento per la regìa di Christopher Alden (al suo debutto in Italia) in una nuova co-produzione con il Festival d’Aix-en-Provence, l’Opéra de Dijon e il Teatr Wielki-Polish National Opera di Varsavia.
Il soprano georgiano Nino Machaidze, al suo debutto al Regio, ha furoreggiato con convinti applausi a scena aperta nelle sue impervie arie di bravura nel ruolo di Fiorilla ed è riuscita altrettanto bene nei vari duetti
Opera bella e strana, piena di intrighi, travestimenti e colpi di scena, accolta con singolare freddezza alla sua première alla Scala il 14 agosto del 1814. Dramma buffo in due atti di impianto tradizionalmente tardo settecentesco, con tanto di [restrict paid=true]fin troppo meccanica sequela di arie e recitativi, e al tempo stesso opera innovativa, per la presenza di un atipico personaggio, un poeta (in realtà un librettista, trattato con auto ironia e finezza da parte sia del compositore, più ancora dell’autore del libretto), ‘pirandellianamente’ estraneo alla vicenda, ma in realtà vero e proprio deus ex machina, che ne trae le fila come fosse un filosofo moraleggiante. Per troppo tempo circolò l’aneddoto secondo il quale l’opera sarebbe stata nient’altro che il ribaltamento dell’Italiana in Algeri andata in scena appena un anno prima, una sorta di burla da parte di Rossini nei confronti dei milanesi. In realtà non è affatto così e, soprattutto, le due partiture non hanno una sola nota in comune. Forse l’opera era per l’epoca troppo innovativa (sia drammaturgicamente, sia sul piano meramente musicale) e per questo stentò non poco ad affermarsi. Sta di fatto che il Turco rimase sempre alquanto in disparte rispetto a ben più noti titoli rossiniani e si dovette attendere la metà del secolo scorso per una vera e propria ripresa di interesse grazie a direttori del calibro di Gavazzeni e del citato Gui, nonché per merito della voce insuperabile della Callas che consegnò la partitura anche ad una memorabile versione in disco.
Al Regio l’attuale edizione si è valsa della sciolta e scorrevole bacchetta di Daniele Rustioni, che dirigendo con mano salda e potendo contare su un’orchestra in ottima forma in tutti i suoi settori, molto opportunamente ha saputo imprimere un bel piglio alla partitura, evitando la monocromia dovuta alla rigida alternanza di recitativi ed arie cui si accennava, specie nel primo atto; laddove il secondo è di per sé assai più movimentato ed anche alquanto più breve: frutto della genialità del pesarese all’epoca appena ventiduenne. Colori screziati, ritmi giusti e in qualche caso certi eccessi fonici che hanno finito per coprire un poco (ma solo un poco) talune voci (certi pur ottimi crescendo che però partivano già dal mezzo forte). Un’edizione musicale di tutto rispetto e sostanzialmente integrale che – significativamente – ha ripristinato la cavatina di Don Narciso del I Atto «Un vago sembiante di gioia m’accende» e così pure quella onomatopeica e incalzante del basso Don Geronio «Se ho da dirla, avrei molto piacere» (Atto II), compresa la cosiddetta aria del sorbetto affidata al personaggio di Albazar (atto II, scena 10) «Ah! Sarebbe troppo dolce».
L’opera – s’è detto – è fitta di colpi di scena, ma tutto finisce bene secondo l’estetica razionalista dell’epoca e le coppie Selim/Zaida e Geronio/Fiorilla alla fine si ricongiungono più o meno naturalmente, dopo imprevisti, gelosie, paure, intrighi e riconciliazioni, sicché il poeta ha trovato materia per il suo dramma ed è felice anch’egli, anzi appare il più allegro di tutti. Unico scornato il vacuo Narciso.
Il sovrano libretto dell’allora ventiquattrenne Felice Romani s’impone sulla musica di Rossini che (giudicata da molti piena di finezze e innovazioni anche sul piano timbrico ovvero strumentale) in realtà alterna sì invenzioni spumeggianti ed esilaranti momenti di apprezzabile livello a qualche fiacchezza qua e là, destando inoltre il sospetto d’un certo squilibrio tra i due atti.
Ed ora le voci. Il soprano georgiano Nino Machaidze, al suo debutto al Regio, ha furoreggiato con convinti applausi a scena aperta nelle sue impervie arie di bravura nel ruolo di Fiorilla ed è riuscita altrettanto bene nei vari duetti; qualche asprezza, in realtà nel registro acuto e una dizione poco nitida non hanno peraltro incrinato il suo successo personale. Carlo Lepore (che nel 2005 aveva debuttato nel Turco proprio al Regio nel ruolo di Selim, alternandosi a Pertusi) è parso un Selim convincente, autorevole, buona tecnica, niente gigionismi inutili, ma comicità e buona presenza scenica. Molto bene vocalmente Paolo Bordogna nel ruolo del debole, pauroso e gabbato Don Geronio, con molti eccessi macchiettistici e troppe gag (pur esilaranti) dovute ad una regìa che taluno definiva sciagurata (quanto meno eccessivamente caricata ed ipertrofica). Il tenore Edgardo Rocha ha sostituito la sera della prima l’indisposto Antonino Siragusa nei panni di Don Narciso. Fin troppo esuberante la sua prova, timbro chiaro, certi eccessi, qua e là un po’ sopra le righe. Simone Del Savio nel ruolo del poeta Prosdocimo è parso a suo agio ed assai autorevolmente ha conferito quel quid di modernità novecentesca che dell’opera è il tratto più innovativo, a partire dalle sue sortite buffonesche già durante la Sinfonia. Talora poco udibile la Zaida un po’ scialba del mezzosoprano Samantha Korbey: la zingara il cui ruolo più drammaturgicamente che vocalmente risulta centrale per lo scioglimento della vicenda e buon successo invece per il tenore astigiano Enrico Iviglia nel ruolo di Albazar, pur eccessivamente caricato dalla regìa (ma molto apprezzato nell’aria citata, con tanto di paglietta e bastone e una movimentata presenza scenica). Un cenno merita Luca Brancaleon al fortepiano per la scioltezza con cui ha disimpegnato i molti recitativi, bene il coro istruito da Claudio Fenoglio.
Singolari e di fatto destabilizzanti le pur coloratissime scene di Andrew Liebermann, così come i costumi anni ’50 del Novecento di Kaye Voyce. Ci si domandava in apertura se l’allusione fosse alle ceramiche o piastrelle di una stazione del metrò parigino, scene tutte in interno e mancava affatto il mare, niente visione del golfo di Napoli… Ottime invece le luci di Adam Silverman, riprese da Cecile Giovansili che hanno saputo evidenziare al meglio i momenti topici della vicenda, pur nel guazzabuglio di una regìa caotica. Per dire, il poeta che fuma, tempesta una macchina da scrivere d’antan, mangia una banana in modo compulsivo, poi l’evocazione degli zingari con una stufa in seguito oggetto di una specie di danza delle zingare stesse, e ancora Geronio che ingolla una pasticca nei momenti di stress, una quantità industriale di tazzine da caffè, la barca resa da una polena in scena (che poi si innalza con effetto allusivo ad un simbolo fallico) e i cantanti che vi si abbarbicano sopra, i coristi che mimano il vogare con la sequenza dei fluorescenti che si accendono a suggerire le ondate.
Cambi di arredi a vista, siparietti, Zaida che beve fino all’ubriachezza, il megafono di cui si serve il poeta, uno scooter in scena, Fiorilla che fa una sorta di spogliarello, passa dalla vestaglia alla parrucca al trucco, poi seduce il marito con scene da Divorzio all’italiana, con tanto di calze al collo di Geronimo, spruzzo di profumo in faccia, tocchi di feticismo, cambio di scarpe e potremmo proseguire a lungo, ma per ovvi motivi ci fermiamo nell’elenco delle troppe trouvailles di una regìa che hanno finito per distrarre e disorientare il pubblico. E che senso poi quella cortina verde che scende a metà palco e poi risale? Nel secondo atto una scazzottata al rallentatore da parte del coro, stendini a vista come nel magazzino di una boutique e i coristi tutti in mutande che si travestono in abiti femminili (ma già nel primo atto le zingare avevano svestito Don Geronio lasciandolo in canottiera e boxer in piedi su una sedia come un allocco).
Quando è troppo è troppo.
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