I chitarristi, “minoranza della minoranza”, così poco rappresentati nelle stagioni musicali e spesso costretti ad omologarsi a programmi per “tangodipendenti” o “brasilianeggianti”. La riflessione di un noto chitarrista sul rapporto con i direttori artistici
di Luigi Attademo
A vrei voluto scrivere io questo articolo. Non perché abbia una particolare acredine verso i Direttori Artistici (mia moglie è Direttore artistico di un Teatro). Ho invece molte riserve verso le persone ottuse, ignoranti, utilitariste, scaltre e senza valori che abitano il mondo di oggi (anche quello musicale), e talvolta queste persone possono ricoprire il ruolo del Direttore Artistico. Una ragione che mi spinge a essere molto reattivo verso questo argomento è di avere un punto di osservazione, molto privilegiato, per il fatto di essere chitarrista. Oltre ad avere i normali problemi relazionali con il mio potenziale interlocutore Direttore Artistico, quindi, devo superare lo scotto di appartenere a una minoranza della minoranza, il che – nel paese in cui è molto diffuso essere forte con i deboli e debole con i forti – significa dover giustificare che il mio strumento potrebbe e dovrebbe avere più spazio e considerazione. Essere chitarrista – per concludere il quadro – obbliga, se si vuole suonare spesso (sia nei club degli “amici della chitarra”, sia nelle stagioni dove la considerazione del mio strumento è nella migliore delle ipotesi pari all’animale esotico) a omologarsi ai programmi “tangodipendenti” o “brasilianeggianti”. Se ci si ostina invece a proporre programmi pensati per valorizzare il repertorio, con un minimo di coerenza, insomma come fanno gli altri musicisti, si passa, come nel mio caso, per “il tipo strano”: “che strano, un chitarrista che non vuole suonare Albeniz o Piazzolla…”
Tutto questo legittimato dai grandi nomi che volenti o nolenti sono portati ad appiattirsi sulle richieste delle agenzie “poco illuminate” o da operazioni commerciali come quella della Deutsche Gramophone fatta sul giovane Milos Karadaglic (ma per i fans basta Milos) che propone una compilation di grandi successi alla chitarra. Dunque se uno come me comincia a contattare una direzione artistica, lo fa già in affanno, cercando di convincere l’interlocutore a non chiudere subito l’email ricevuta dopo aver letto la parola “chitarra”. C’è stato un momento in cui ho cercato di nascondere il più possibile nel testo della lettera la mia identità, ma poi quando si telefona bisogna inevitabilmente confessare. Venendo ai D&A, le strategie, in buona o cattiva fede (non sta a me dirlo, non sono qui a giudicare le singole persone) sono essenzialmente due. Quella temporale: “caro Maestro ancora non abbiamo pensato alla stagione”, oppure “la stagione è già pronta da tempo”, e in quest’ultimo caso si dà per certo che il proponente debba perire nei successivi anni ed quindi l’impossibilità di prendere in considerazione la proposta in futuro. La seconda, quella economica: i tagli. “Quest’anno, sa… i tagli… ” Mi sembra di ricordare lo zio di Jonny Stecchino quando elenca i problemi della Sicilia: Etna, siccità e traffico.
Ovviamente prima di questo livello, c’è il livello del muro di gomma, di quei D&A che non rispondono né alla posta né alle telefonate: mai una risposta, fosse anche un insulto. Alla fine, la frustrazione del musicista è tale che spera almeno in un giudizio negativo, che attesti una considerazione più o meno motivata sul lavoro e sulle idee che si propongono. Ci sono poi i possibilisti, quelli che dicono “ni”, protraendo allo sfinimento il possibile concerto, e inducendo così l’interlocutore/musicista per raggiunti limiti di vecchiaia a desistere.
A onor del vero, queste tipologie non sono – spero e credo – maggioritarie. Molte volte mi è capitato, anche di recente e – strano a dirsi ma vero – senza chiedere aiuto a nessuno, di poter interloquire con direzioni artistiche e poter motivare i miei progetti raccogliendo anche un’insperata considerazione. Non bisogna darsi alibi: non sono tutti deprecabili, non è sempre un magnamagna che ci esclude, non c’è sempre incompetenza e tracotanza. Certo è che queste situazioni ci sono purtroppo, e invece non dovrebbero proprio esistere. La sensazione generale è quella del Titanic, di un gruppo di persone che autoalimenta la propria attività con scambi, favori e indirette influenze dettate più dall’amicizia che dal malaffare, e che non si rende conto della deriva alla quale la barca su cui sono è condannata. Noi, che siamo in terza classe, abbiamo almeno questo privilegio: non ci facciamo illusioni.
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Si è mai udito un pianista adoperare la locuzione (di freudiana trasparenza) “il nostro strumento”? Nella piccola internazionale dei chitarristi, il “loro strumento” è realmente un’entità musicale? Se è indubbio che, nei confronti di pochi, validi musicisti – che hanno scelto di dedicare la loro attività di interpreti al repertorio della chitarra – l’emarginazione post-segoviana della figura del chitarrista da parte del mondo dell’organizzazione musicale pesi come un’ingiusta discriminazione (e a tal proposito non c’è che da sottoscrivere le ironie di Luigi Attademo), è altrettanto fuor di dubbio che, nei riguardi della stragrande maggioranza degli araldi del “loro strumento”, il rifiuto del mondo musicale sia fondato su motivi sacrosanti: suonano musica stupida e sono del tutto sprovvisti – culturalmente – del senso del ridicolo. Il repertorio e la tradizione pianistica possono metabolizzare l’avvento di pianisti scemi senza che ne patiscano conseguenze – non dico i Pollini e le Argerich, ma anche i maestri più giovani. La chitarra no, per un cretino che rompe le scatole ai direttori artistici con le sue offerte – che verrebbero giudicate scadenti anche dal proprietario di un piano-bar – la pagano anche gli Attademo. Appunto, perché, diversamente dal pianoforte, la chitarra è “il nostro strumento”. E non c’è niente da fare, se non lottare per sopravvivere dignitosamente. Risparmio ai lettori che cosa implichi e comporti il dedicare alla chitarra la maggior parte della propria attività di compositore: i gulag culturali sono tutt’altro che scomparsi e, proprio nel nostro bel paese, gli eredi di Stalin, alla guida dei festival, prosperano, pur mostrando un volto segnato da meritoria sofferenza. AG