Repertorio seicentesco per la formazione diretta da Enrico Casazza. Occasione per riflettere sulla retorica barocca
di Cecilia Malatesta foto © Andrea Mariniello
Non è forse la musica “l’Eco in Terra della Armonie de’ Beati in Cielo” si chiedeva il musicologo Gino Stefani nel fortunato volume Musica barocca? La poetica musicale seicentesca prende alla lettera la capacità naturale del suono di raddoppiare il suo valore espressivo propagandosi e tornando all’orecchio qualche frazione di secondo più tardi. Se l’eco è ʽmagiaʼ della natura, la musica altro non deve fare che imitarla e gareggiare con essa, avvalendosi del dialogo, dell’alternanza, della reiterazione come espedienti retorici che si traducono in stile concertato, in progressioni armoniche, in ripetizioni dagli effetti stereofonici.
I Concerti grossi di Corelli (op. 6 nn. 3-4), Locatelli (op. 1 n. 5), Händel (op. 6 n. 4) e Geminiani (op. 5 n. 12) che l’Ensemble La Magnifica Comunità ha offerto nella Chiesa di Santa Maria delle Grazie per il cartellone di Mito 2015 non potevano spiegare meglio questo concetto. Emblema della retorica barocca, del principio dialettico di contrasto proprio dello stile concertante seicentesco, il concerto grosso è per sua natura dialogo, imitazione, eco e rimandi tra le sezioni del concertino e del ripieno che ne costituiscono l’ossatura.
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Enrico Casazza, primo violino e direttore, guida l’ensemble con una scelta dei tempi equilibrata e con un fraseggio estremamente piano e chiaro che trova forse i migliori risultati nei movimenti lenti: dopo il finale infuocato del concerto di Geminiani composto sulla celeberrima Sonata corelliana “La Follia” in cui mai il tema viene eccessivamente infarcito, vero gioiello è il bis, l’Andante largo dal Concerto D 96 di Tartini che strappa le ovazioni del pubblico ancora prima che il suono dell’ultimo accordo si sia dissolto – perché sempre fretta di privarsi di questo brivido? Casazza è virtuoso dall’indubbio valore e ne ha dato prova nel nono Concerto per violino in sol maggiore op. 3 di Locatelli il cui primo movimento impegna l’esecutore in una lunghissima cadenza condotta con un uso dell’arco sulle corde mai eccessivo e sforzato.
Se i nostro orecchio è ormai assuefatto a moderne sale da concerto e a incisioni discografiche ci restituiscono suoni puliti e netti, fioriture e virtuosismi definiti – nota per nota, arcata per arcata – il fascino dell’esecuzione della Magnifica Comunità si deve proprio alla ʽdoppia voceʼ dell’eco naturale della chiesa che smorza le frequenze e restituisce una performance di indubbio pregio, non pulita, ma seducente. E se questo rende omaggio in particolari alle sezioni soliste e del concertino, troppo spesso invece quel gioco di dinamiche, il precipitoso avvicendarsi di forte e piano e le reiterazioni motiviche in lontananza che fanno la meraviglia di questa musica si vanno a perdere in un indistinto sonoro – di cui vittima è anche il clavicembalo – nelle sezioni di piena orchestra. La scelta di attenersi all’organico stabilito, composto solo di strumenti ad arco, non ha giovato a una differenziazione delle parti che in questo contesto poteva invece trarre giovamento dall’inserimento – come spesso accade – di strumenti a fiato. Ma forse, in realtà, per un’ulteriore dimensione espressiva, questa musica che guarda all’imminente classicismo ma mantiene un piede saldo nell’estetica barocca merita di trovare un’ulteriore eco, non solo nell’acustica di una bella chiesa, ma nell’entusiasmo dei musicisti, certamente algidi e poco divertiti, per quanto ottimi e precisi.
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