Un irresistibile, incontenibile, dolce e delicato artista. A Torino il pianista con l’Orchestra Haydn diretta da George Pehlivanian
di Attilio Piovano foto © Gianluca Platania
Stefano Bollani? Un grande, un grandissimo. C’è forse bisogno di rimarcarlo? Sold out al Lingotto, per MiTo, a Torino, la sera di martedì 15 settembre 2015 e, ad affiancare il versatile jazzista (ma è riduttivo chiamarlo così perché Bollani è un musicista a trecentosessanta gradi, lo sanno bene i suoi fans) un’orchestra coi fiocchi, vale a dire la Haydn di Bolzano e Trento, rimpolpata nei ranghi sì da presentarsi come una formazione sinfonica dal corposo organico, con la bacchetta di lusso di George Pehlivanian.
Molti ammirano estasiati le piccole e nemmeno troppo piccole varianti che Bollani inserisce con garbo tra le pieghe del capolavoro strumentato da Grofé
Parterre di autorità, sindaco in testa (da lì il ritardo con cui s’inizia, non già perché Bollani si faccia attendere come certe star, tutt’altro), e subito Bollani – enorme cordialità e naturalezza – siede allo Steinway, lui solo, iniziando ad improvvisare in modo soft, colloquiale, come tra amici, come lui e pochi altri sanno fare. E improvvisa su temi di Gershwin, e allora ecco riconoscibilissimo il tema di Summetime, variato con sopraffina immaginazione armonica; va infittendolo di poliritmie e poi decolla mandando in visibilio in pubblico.
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A seguire una seconda e poi una terza improvvisazione; e c’è spazio per allusioni al be-bop, ammiccamenti a The man I love, trattato con impareggiabile finezza in ritmo di beguine (impagabile, da urlo) e scoppiettanti digressioni su un basso ostinato alla sinistra che procede granitico e solido, mentre la destra inanella digressioni e virtuosistiche divagazioni. Lui, sorridente e concentrato, iper cinetico, tecnica agguerritissima, pochissimo pedale e grande fantasia timbrica cattura l’attenzione di 2000 persone dai gusti più diversi e dalle dissimili propensioni (molti i giovani ed i fans doc, ma per lo più lo zoccolo duro del pubblico habitué). Con quanto Bollani muove gambe e piedi, con quanto lievita sullo sgabello un pianista ‘classico’ inorridirebbe pensando alle tensioni muscolari che si innescano anche su mani e dita. Invece il suo tocco si mantiene sempre perfettamente sciolto e come rarefatto, nessuna durezza, nessuna asprezza. Una vera gioia per le orecchie, per il cuore e la ‘testa’. Teatralità, show e dolcezze.
Poi, nella Rhapsody in blue, l’intesa con la Haydn e col direttore libanese che da anni apprezziamo, appare subito perfetta. Molti ammirano estasiati le piccole e nemmeno troppo piccole ‘varianti’ che Bollani inserisce con garbo tra le pieghe del capolavoro strumentato da Grofé, nei passi solistici che gli spettano, beninteso, sfoderando verve e flessuosa nonchalance ritmica, ma anche un tocco delicatissimo, fin vellutato nei passi cantabili dai pallori lunari. E alla fine i ‘suoi’ bis: due brevissimi e aforistici, quasi provocatoriamente ironici, un rag il primo, il secondo quasi il remake di un notturno, infine la sua spassosa rivisitazione di Chopin, irresistibile, molta cultura e grande sensibilità e ancora un ulteriore omaggio agli anni Trenta, per il terzo bis, sul côté del Brazil.
Successo incredibile grazie anche alla superba performance dell’orchestra che si rivela di alto livello e si riconferma tale in Appalachian Spring di Copland, un magnifico affresco degli sconfinati orizzonti Usa, dove c’è spazio per nostalgiche dolcezze e anche il remake di inni religiosi accanto a ritmi più dinoccolati e vivaci. Indimenticabile per colore, ottoni da sballo e archi dal suono pastoso e ambrato. Non basta. In chiusura ancora lo stravinskijano Uccello di Fuoco in una interpretazione da manuale per bellezza di suono, esattezza ritmica, iridescente policromia, sino all’apoteosi delle ultime misure che tirano giù il Lingotto dagli applausi. E ancora, ormai a notte fonda, lo smagato e struggente Valzer dalla Jazz Suite di Šostakovič dall’indicibile melanconia tutta russa evocata dal suono soffocato dei sax. A dir poco, memorabile.
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