Densa presenza del direttore musicale, in giugno, nel suo teatro bolognese: Don Carlo di Verdi, L’Italiana in Algeri di Rossini e un concerto dedicato agli stessi due compositori; tournée parigina dietro l’angolo, contratto in scadenza e conseguente ansia di musicisti e musicofili ai piedi delle Due Torri
di Francesco Lora foto © Rocco Casaluci
Fatto risaputo: dal 2007, quando avvenne il primo incontro artistico, e ancor più dal 2014, quando il ruolo è stato ufficializzato, le maestranze e il pubblico del Teatro Comunale di Bologna adorano il loro direttore musicale, Michele Mariotti. Non è scontato: negli ultimi trent’anni la genealogia direttoriale felsinea ha vantato Riccardo Chailly e Daniele Gatti, innescando però più fredda stima che vero affetto, o Christian Thielemann e Vladimir Jurovskij, amati ma mai premiati oltre l’ospitalità ricorrente. Mariotti ha ottenuto e meritato tutto. Dovendosi indicare qualcosa che oggi impensierisca musicisti e musicofili ai piedi delle Due Torri, ciò consiste proprio nel punto interrogativo circa l’incerto rinnovo del contratto quinquennale: Mariotti stesso non ha fatto mistero del suo desiderio di lasciare Bologna verso altri lidi artistici, preferendo un arrivederci nel momento del più fervido rapporto anziché in quello dell’assuefazione; ma per chi lavora e dimora nel capoluogo emiliano, il congedo del giovane direttore significherebbe anche la perdita del fulcro sul quale s’impernia oggi l’identità stessa della fondazione lirica, stravolta da quindici anni di gestioni non immacolate.
Prova dell’affetto sono i molti bolognesi che hanno preso l’abitudine di seguire Mariotti ogni volta che non diriga nel loro teatro, bramosi di essere al suo fianco anche a Milano o Berlino, Napoli o Monaco, Palermo o Londra, Torino o Salisburgo. E l’affetto si è rinnovato in questo mese di giugno così denso della sua presenza al Comunale: l’atteso debutto nel Don Carlo di Verdi (cinque recite dal 6 al 14), una prova aperta dell’Italiana in Algeri di Rossini (il 16, nel Teatro Manzoni) e un concerto con programma equamente verdiano e rossiniano (il 19, nella sala bibienesca); spettacoli, gli ultimi due, in vista di una tournée al Théâtre des Champs-Élysées di Parigi (il 22 e il 23), la quale attesta l’approdo dell’istituzione italiana al cuore del mercato internazionale. Il 29 del mese, presentandosi la nuova stagione, cadrà forse il velo sul futuro di tutte le parti sin qui evocate. Frattanto, ecco il panoramico resoconto degli ultimi spettacoli primaverili; ed ecco innanzitutto il capolavoro operistico verdiano, qui nella sua matura versione milanese in quattro atti e in un nuovo allestimento scenico che – ozio – annichilisce il discorso teatrale e – dolo – tiene in ostaggio quello musicale.
La regìa di Henning Bockhaus fa capo a una sola idea: l’onnipresenza del Grande Inquisitore che, dalla cattedra pontificia, incombe su tutto lo svolgersi dell’azione; è un errore che annulla lo studiato e progressivo allungarsi del personaggio, dalla prima evocazione nel duetto di Filippo e Rodrigo al tremendo ingresso dopo il monologo del re. Intorno, le ingombranti scene di Nicola Rubertelli si accontentano di essere astratte e, così, non definire ambiente storico e contesto sociale, mentre i costumi di Giancarlo Colis insinuano il sospetto di rassegnato riciclo dai magazzini, segnando una zampata di genio in un’Elisabetta di Valois mascherata da Aida e in una Principessa Eboli mascherata da Marilyn Monroe. A Mariotti la sfida ingrata d’illustrare la partitura dal podio mentre il palcoscenico distrae, pasticcia e fraintende: la prima recita ne è uscita malconcia, tra nervosismi e distrazioni condivisi da bacchetta, cantanti, orchestra e coro; le repliche hanno meglio palesato una concertazione di nobile calligrafia, desiderosa di aprire nuovi orizzonti interpretativi, attenta alla grigia mestizia espressiva dei dettagli ma meno alla sintesi poderosa di un’opera dal gesto grande.
Poco male: col Don Carlo si cresce, eseguendo e ascoltando. Lo dimostra anche una schiera di cantanti lussuosa in locandina, ma spesso immatura nel caricarsi di personaggi colossali. Fibroso, stentoreo, impermeabile alla supplica di sfumature risulta il protagonista nel canto tenorile di Roberto Aronica; quando lo raggiunga in scena il Rodrigo di Luca Salsi, ecco due vocalità generose – generosissima, anzi, quella del baritono, e con uno smalto di pregio inestimabile – competere all’ultimo fortissimo e mandare all’aria la sommessa eleganza mariottiana. Come i modi di Salsi fanno pensare a uno spiccio Carlo Gérard in libera uscita, così quelli di Dmitry Beloselskiy definiscono un Filippo che pare Boris Godunov: sovraccarico, cioè, di enfasi alla russa, e ricalcato sul modello di Ferruccio Furlanetto assimilandone più l’esteriorità feroce che il ripiegamento profondo. Duettando, l’esotico sfoggio di armonici relega nondimeno nell’ombra il Grande Inquisitore di Luiz-Ottavio Faria, piuttosto goffo e terrificante mai. Quanto a bassi, v’è poi il Frate: e la sottigliezza di fraseggio di Luca Tittoto, unita a un rigoglio timbrico non comune, sa dialogare come non altra con podio e partitura.
Inverso il contributo delle due signore. Gli affondi al registro grave, nella parte di Elisabetta, non aiutano l’emissione naturale di Maria José Siri: eppure la malia timbrica, la sua chiara riconoscibilità e l’ampia gettata melodica non vengono meno; latita invece un personaggio di taglia regale, che non sia soltanto tenerezza e ingenuità. Questione di attitudine al rango sociale di chi si incarna: nel concerto del 19 proprio la Siri ha infatti trascinato all’entusiasmo come Amelia del Ballo in maschera (scena e aria dall’atto II, più il duetto con Riccardo), Amelia del Simon Boccanegra (scena e duetto con Gabriele dall’atto I), Leonora della Forza del destino (“melodia” dall’atto IV) e Odabella dell’Attila (scena e duetto con Foresto dall’atto I); prima la donna, poi l’eventuale nobiltà. Opposto è il caso di Veronica Simeoni, che come Eboli si azzarda al limite delle possibilità di pasta, volume ed estensione; se però chi scrive è tornato di recita in recita a confrontarsi con uno spettacolo tutto sommato modesto, ciò si deve soprattutto a lei e al desiderio di vederla e ascoltarla centellinare ancora, con ammirevole e commovente intelligenza di attrice, la confessione di colpa alla regina nell’atto III.
Colpo gobbo per ciò che riguarda L’Italiana in Algeri: ci si aspettava un’anteprima dell’opera completa, a mo’ di prova generale aperta al pubblico (pagante); si è trattato invece di una lettura pomeridiana dell’atto II, mentre il I era già stato letto in mattinata a porte chiuse. Darne una recensione diviene fuori luogo; ed è un’occasione mancata per tutti, giacché la direzione di Mariotti e le maestranze felsinee sfavillavano di nettezza e arguzia a ogni battuta, circondati da una compagnia di canto attinta dalla seconda e terza generazione di specialisti rossiniani: Marianna Pizzolato, Carlo Lepore, Antonino Siragusa e Roberto De Candia; presente anche la prova di erudizione: l’aria di Lindoro non era l’adespota «Oh come il cor di giubilo» ma la più rara e autografa «Concedi, amor pietoso». Roba che a Parigi, fino al 22 giugno, si sono solo sognati. Concerto in regolare stagione, invece, quello verdiano e rossiniano: Mariotti assai più sciolto nella brillantezza dell’Ouverture del Guillaume Tell e nel furore delle danze del Macbeth che nella caligine del Don Carlo, Stefan Pop a duettare spavaldo con la Siri e intonare la romanza del Simon Boccanegra: una prova di stile italiano pronta all’esportazione.