di Cesare Galla
Che cosa rimane oggi delle Baruffe chiozzotte? Un tempo proverbiale cavallo di battaglia di generazioni di attori specialmente veneti, passerella per un teatro di caratteristi dalla lunga tradizione, la commedia di Goldoni – Venezia, gennaio 1762: una delle sue ultime prima della partenza per Parigi – ha avuto ed ha una sorte rappresentativa singolare.
In questo destino svolge una funzione di spartiacque il celebre allestimento che ne realizzò, poco prima della metà degli Anni Sessanta, Giorgio Strehler. Rispetto al quale c’è un “prima” e un “dopo”. Ma se prima la vulgata comica e a tratti caricaturale aveva finito per delineare una sorta di “degenerazione” esecutiva macchiettistica, il dopo ha conosciuto una sorta di “crisi di senso” sulla quale la profonda rilettura strehleriana – teatro popolare, nel senso che il popolo vi è protagonista, e drammatico perché tali sono le baruffe, pretestuose quanto si vuole ma niente affatto giocose – ha proiettato un’ombra lunga e per certi aspetti condizionante. Il risultato è stato una rarefazione nelle edizioni, una collocazione del testo non più nel cuore del repertorio.
Anche per queste considerazioni, il progetto realizzato dalla Fenice in sinergia con Marsilio editore (che compie sessant’anni ed ha pubblicato l’Edizione Nazione delle opere di Goldoni) assume una valenza ancor più significativa. Commissionare a Giorgio Battistelli – Leone d’oro della prossima Biennale proprio per il suo vastissimo impegno nel teatro musicale – un’opera basata su una delle commedie dell’avvocato veneziano era una sfida complessa, dopo gli storicizzati pregevoli “saggi” nei primi decenni del Novecento, firmati da Ermanno Wolf-Ferrari e da Gianfrancesco Malipiero, e dopo che l’attenzione dei musicisti si era affievolita se non del tutto interrotta. E tanto più lo è diventata nel momento in cui il compositore laziale e Damiano Michieletto, coinvolto nell’impresa e coautore del libretto insieme al musicista, oltre che naturalmente regista, hanno puntato sulle Baruffe chiozzotte. Il risultato di questa notevole sinergia culturale, Le Baruffe, ha debuttato martedì alla Fenice, dove sono previste altre quattro repliche, il 24 e 26 febbraio e il 2 e 4 marzo.
Battistelli definisce “teatro di musica” questa sua nuova prova per la scena, che giunge tre mesi dopo il debutto dell’intrigante Julius Caesar all’Opera di Roma. Probabilmente questa “etichetta” piuttosto insolita vuole significare il tentativo di arrivare a una diversa interazione fra l’originale goldoniano e la sua “trasformazione” in drammaturgia musicale. Oltre le definizioni, resta all’ascolto la sensazione di un’occasione mancata anche se – ovviamente – accuratamente meditata. Il riferimento a Strehler, che lo stesso Battistelli conferma di avere avuto come punto di partenza (anche se parliamo di una lettura che risale ormai a sessant’anni fa), si risolve in una partitura di forte valenza drammatica, dalle pennellate strumentali ampie e scure, esaltate da un ricorso particolarmente incisivo ma anche per così dire “plateale” delle percussioni. Il trattamento delle voci è costruito su un declamato denso e franto, particolarmente arduo nel suo toccare gli estremi della tessitura, che finisce peraltro per risultare il più delle volte monocorde in una partitura alla quale gioverebbero una ventina di minuti di meno, soprattutto in considerazione della sostanziale uniformità di tinta dell’insieme.
Manca del tutto non si dice la comicità, che non è certo questa la caratteristica delle Baruffe goldoniane, ma quello sguardo insieme malinconico e ironico, sempre motivato da una sorta di cordiale benevolenza, che a conti fatti è la cifra espressiva più caratteristica di questa commedia. E manca, nella scrittura vocale, la particolare musicalità del chioggiotto, lingua sonora ed evocativa.
Complementare alla musica di Battistelli è lo spettacolo firmato da Michieletto, con la consueta collaborazione dello scenografo Paolo Fantin, della costumista Carla Teti, del light designer Alessandro Carletti. Michieletto e i suoi riducono all’essenziale il fatto scenico e la narrazione registica, ma l’obiettivo è lo stesso del compositore: una visione cupa delle Baruffe chiozzotte, per certi aspetti inquietante prima del lieto fine, ma egualmente monocorde, lontana dalle sottigliezze goldoniane. Per fare questo, lo spettacolo è inserito nello spazio vuoto (con le attrezzature a vista) del palco della Fenice, ed è basato su di un’intelligente e in qualche momento intrigante “coreografia” tra figuranti, cantanti ed elementi scenici, costituiti solo da cinque strutture lignee mobili. In alto, tre enormi ventole segnano con il moto delle pale l’accendersi dei litigi e il loro sopirsi. Sul fondo, le proiezioni di Sergio Metalli evocano il “caìgo” della Laguna e le nubi spinte dallo scirocco.
Gli elementi in legno funzionano da quinte scorrevoli, che articolano le scene dentro a un’uniformità comunque improntata a tinte sobrie e scure. Le tavole che li avvolgono diventano le “armi” del popolo chioggiotto, che si lascia trasportare dall’ira e forse dalla violenza, prima che il buon senso prevalga e tutto si ricomponga in una serie di lieti matrimoni “riparatori” del quieto vivere.
Anche Michieletto, quindi, sottolinea il versante drammatico e si nega sempre – tranne che nel finale, sulla finalmente trasparente pagina orchestrale posta a chiudere la partitura – l’ironia capace di schiudere prospettive meno pensierose. Così, l’impressione resta quella di una narrazione musicale che si prende terribilmente sul serio e prende troppo sul serio Goldoni: troppo per le parole che si sentono e per il plot che lo scrittore veneziano delinea con mano comunque leggera, oltre che distaccata.
Alla Fenice, esecuzione di forti tensioni e accentuati contrasti. Dal podio, Enrico Calesso ha guidato l’orchestra veneziana in una resa assai estroversa e drammaticamente acuminata anche per volumi sonori e sottolineature di fraseggio. Al cospetto delle linee di canto spesso impervie disegnate da Giorgio Battistelli, la numerosa compagnia di canto si è difesa onorevolmente, affermando una generale tenuta timbrica e anche una discreta predisposizione attoriale. Essa era formata da Alessandro Luongo (Padron Toni), Valeria Girardello (Madonna Pasqua), Francesca Sorteni (Lucietta), Enrico Casari (Titta-Nane), Marcello Nardis (Beppo), Rocco Cavalluzzi (Padron Fortunato), Loriana Castellano (Madonna Libera), Francesca Lombardi Mazzulli (Orsetta), Silvia Frigato (Checca), Pietro Di Bianco (Padron Vicenzo), Leonardo Cortellazzi (Toffolo), Federico Longhi (il coadiutore Isidoro), Emanuele Pedrini (il messo) e Safa Korkmaz (il venditore di zucca). Efficace il coro istruito da Alfonso Caiani nella parte aggiunta rispetto all’originale goldoniano, posta all’inizio e alla fine dell’opera. Teatro al completo alla prima e accoglienze di viva approvazione, con ripetute chiamate per tutti.