di Gianluigi Mattietti
Richard Jones aveva messo in scena Kát’a Kabanová alla Royal Opera House nel 2019, e quella regìa aveva anche ottenuto il Laurence Oliver Award per la migliore nuova produzione operistica di quell’anno.
Lo stesso spettacolo è approdato adesso all’opera di Roma (dove Kát’a Kabanová non era mai andata in scena) affascinando ancora non tanto per la novità di alcune intuizioni registiche, ma piuttosto per la coerenza generale con la quale sono state armonizzate. L’idea della grande scatola di legno nella quale racchiudere le scene, così come la simbologia degli uccelli e del volo, la gestualità quasi coreografata dei personaggi, ricordavano infatti molto l’allestimento creato da Willy Decker per l’Opera di Amburgo nel 2003. Ma la prospettiva teatrale di Jones appariva assai diversa: rispetto al microcosmo provinciale, ottocentesco immaginato da Janáček, e tratto dal dramma Grosa (L’uragano) di Ostrovskij, scomparivano infatti la natura, la campagna, gli alberi, anche il Volga (l’unico accenno fluviale era il periodico stazionamento di alcuni personaggi sul proscenio, con una canna da pesca sospesa sulla fossa dell’orchestra, e qualche pesce pescato), e la vicenda veniva trasportata in un contesto urbano anni Settanta. L’impianto scenico di Antony McDonald era scarno, fatto di grandi spazi desolanti, una casa di periferia, interni piccolo-borghesi, una panchina nel parco, un lampione, un’automobile malconcia, una pensilina dell’autobus, dove avveniva la drammatica confessione della protagonista.
In questo ambiente scenico la lettura di Jones appariva anti-verista, concentrata su dettagli psicologici, sulle nevrosi dei personaggi, molto moderne, sulle loro pulsioni sessuali, sugli sguardi libidinosi che circondano Kát’a. Un teatro dove la recitazione era curata alla perfezione, ogni gesto attentamente calcolato, dove tutti si muovevano in sintonia con le figurazioni musicali (sia vocali che orchestrali), seguendo anche percorsi simmetrici (come gli incontri notturni delle due coppie), o si bloccavano come in un fermo immagine. Si muoveva anche il palcoscenico, ruotava, la pensilina si trasformava in una specie di giostra, l’appartamento dei Kabanov veniva risucchiato nel fondo della scena, scomparendo nel buio. Non c’era il Volga, ma c’era un andirivieni continuo dei personaggi e del coro, un ondeggiare di corpi che sembra rispecchiare le inquietudini profonde della protagonista.
Tutti i cantanti si sono ammirati sia per le doti vocali che per la recitazione, e si trattava di cantanti non cechi, a dimostrazione di come le opere di Janáček siano diventate ormai repertorio internazionale: Laura Wilde (che sostituiva nell’ultima recita romana la acclamata Corinne Winters nel ruolo di Kát’a) sfoggiava una voce radiosa e buone doti di attrice, cogliendo la psiche tormentata di Kát’a in maniera molto credibile e intrecciandosi con slancio e abbandono nei duetti con Boris. Il Boris di Charles Workman aveva pure una voce appassionata, espressiva, sempre ben proiettata. Julian Hubbard era un Tichon totalmente sottomesso alla madre, la dispotica Kabanicha, interpretata con grande energia da Susan Bickley. Carolyn Sproule era una Varvara radiosa e vivace al fianco di un Kudrjáš di Sam Furness molto ben caratterizzato. Bravissimo anche Stephen Richardson nei panni di Dikój, l’arrogante zio di Boris. David Robertson, sul podio, ha offerto dell’opera una lettura asciutta, ma con una tensione costante e grande cura per i dettagli, facendo emergere bolle di puro lirismo, seguendo come un sismografo gli umori dei personaggi, soprattutto nei due grandi monologhi di Kát’a, dipanando con grande chiarezza la trama dei Leitmotiv intessuta da Janacek, sfruttando il bellissimo suono dell’orchestra romana, in una perfetta sintonia tra la buca e il palcoscenico.