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Al Lingotto di Torino la compagine venezuelana ha interpretato Ravel, Berlioz, Evencio Castellanos
di Attilio Piovano
Occorre ammetterlo: era un bel colpo d’occhio ammirare, sul vasto palco del Lingotto, il coreografico schieramento dei circa duecento giovani componenti dell’Orchestra Sinfonica del Venezuela ‘Simon Bolivar’, assiepati all’inverosimile, per una serata dell’Unione Musicale. E per converso non meno commovente constatare il gran pienone in sala con una insolita presenza di giovani e giovanissimi, molte le intere classi scolastiche di liceali, convenuti per una serata speciale. Giovani in sala per ascoltare giovani professionisti, ovvero una formazione, come si sa, frutto in un progetto davvero particolare, quello fondato sul sistema che ebbe in Antonio Abreu il suo ideatore, un progetto di «educazione musicale pubblica, di diffusione capillare con accesso gratuito per bambini di tutti i ceti sociali», un progetto relativo alla musica «vissuta come riscatto sociale ed intellettuale da parte di giovani che nel 75% dei casi vivono sotto la soglia di povertà». È questo il cardine sul quale si basa il progetto stesso del quale l’Orchestra Sinfonica ‘Simon Bolivar’, giunta oggi a ragguardevoli livelli tecnici, è il vero e proprio fiore all’occhiello.
Risultati artistici, dunque, di innegabile valore (con collaborazione con direttori del calibro di Sir Simon Rattle e Claudio Abbado, tra i più strenui sostenitori), ma nel contempo il ‘senso’ di una operazione sociale ancora più preziosa e meritevole. Alla guida della compagine l’esuberante Diego Matheuz, classe 1984, ormai non più recente ‘scoperta’, ma professionista affermato, gesto ampio, chiaro e incisivo, memoria infallibile, sì da dirigere l’intero programma senza partitura. Programma che esordiva con la suadente seconda suite da «Daphnis et Chloé» di Ravel, dalla commovente storia d’amore fondata su uno spunto tratto da un romanzo dell’ellenista Longo Sofista. Ottenere pianissimi soffusi con un complesso così vasto non è certo facile, e allora ecco che l’attacco («Lever du jour») anziché suggerire le brume ed il clima attonito di una giornata al risveglio, con la natura che si irradia di luce, tutto era già nitido e luminoso (per dirla più esplicitamente, tutto già troppo sonoro sin dalle prime misure…).
Bene la possanza dei bassi, bene l’emersione della famigerata idée fixe. Certo il tutto sarà perfetto quando potrà giovarsi di una maggiore cura dei dettagli
L’intera suite è scivolata via con momenti dei notevole bellezza sonora e timbrica, ma avremmo desiderato più elasticità sia ritmica, sia di trapassi chiaroscurali, più souplesse, insomma, Matheuz tende ad appiattire le dinamiche dal mezzo forte in su, penalizzando un poco i dettagli. Occorre dire peraltro che risultavano molto efficaci le parti dalle sonorità sontuose e lussureggianti, con momenti in cui l’Orchestra Bolivar brillava per ebbrezza sfrenata, e così il finale («Danse général») ha trascinato l’intero uditorio, con la sua energica massa d’urto. Dinanzi all’euforia dei giovani orchestrali ci domandavamo se davvero tutti avessero ben presente la bella storia d’amore narrata nel balletto, nella quale la loro giovane età certo non dovrebbe aver difficoltà a rispecchiarsi. Da come suonavano verrebbe da rispondere in modo inequivocabilmente affermativo, tanto il baccanale pagano dell’epilogo è risultato vivido e coinvolgente.
Poi hommage alla gloria locale Evencio Castellanos (1815-1984) del quale ci è stata proposta la suite sinfonica «Santa Cruz de Pacairigua», pagina invero non memorabile, un patchwork, o se si preferisce un collage di temi spesso etnici, confezionata con abilità certo (anche se con tratti un poco ingenui), e con un occhio ad importanti pilastri, pienamente riconoscibili quali ascendenti della partitura: molte poliritmie alla Milhaud («Scaramouche»), parecchio Poulenc, ma anche il Satie di «Parade», un mix di echi di e Falla (ma il buon Manuelito era assai più scabro e scarno, qui c’è alquanto più colorismo, talora eccessivo). Apprezzabile la policromia ben resa da Matheuz, poi quella zona centrale assorta, calco pseudo raveliano, con suggestivi (ma prevedibili) effetti di campane e un melodizzare rassicurante, quasi sempre tranquillamente tonale (e dire che la pagina è del 1954), il rischio di qualche sfilacciatura evitata da Matheuz, poi certe allusioni ad un esotismo di maniera (vago ricordo di «Butterfly» e «Turandot» e anche di certo Bernstein). La pagina stenta a decollare, occorre ammetterlo, anche laddove compare una sorta di corale, e Matheuz ben assecondato dalla sua Orchestra, ha fatto del suo meglio, più colonna sonora che non suite vera e propria; di innegabile appeal il coinvolgente epilogo, ma dopo quasi 20 minuti (troppi) di musica non immune da ridondanze.
Il clou con la marcia al supplizio, icastica e col giusto piglio, idem il Sabba finale al quale mancava un poco il senso del grottesco, e così pure il senso del mistero
Da ultimo la berlioziana «Fantastique». Anche qui, in apertura Matheuz dava una lettura piuttosto squadrata, con ritmi netti e poca concessione ai ‘tira e molla’ che invece conferirebbero un quid di emozione alla pagina di esordio. Bene la possanza dei bassi, bene l’emersione della famigerata idée fixe. Certo il tutto sarà perfetto quando potrà giovarsi di una maggiore cura dei dettagli, di una concertazione volta a mettere perfettamente a fuoco i colori ed altro, qua e là. Molto apprezzata la scena del ballo, qui sì con la giusta flessuosità, senza smancerie, con eleganza e senza manierate movenze. Poi le insidie della «Scena nei campi» (ottimo il corno inglese, Elvis Romero, bel suono e bei fraseggi, come del resto tutte le prime parti), le insidie di una pagina dilatata a dismisura nella quale è assolutamente d’obbligo variare i colori, pena la dispersione, la perdita di concentrazione, di interesse e la monotonia. Il clou con la marcia al supplizio, icastica e col giusto piglio, idem il Sabba finale al quale mancava un poco il senso del grottesco, e così pure il senso del mistero. Qualche squilibrio tra gli ottoni, ma è un peccato veniale, e non a caso il Sabba ha fatto scrosciare lunghi e convinti applausi. Primo bis, la verdiana «Forza del destino», e si sente la lezione di Abbado i Matheuz, ormai abbondantemente italianofilo. Da ultimo lo sorpresa tenuta in serbo per la festosa serata.
Buio in sala, rapido cambiamento d’abito e tutti gli orchestrali con la felpa d’ordinanza con i colori nazionali, e subito la scatenata e tellurica carica energetica del «Mambo» da West Side Story dell’indimenticabile Lenny (Bernstein, ovviamente). Scene di entusiasmo e lancio festoso delle 200 felpe in sala. Ed era commovente vedere i ragazzini e liceali felici per quel trofeo da portarsi a casa: ma, ancor più – ci piace pensare – felici per le emozioni di una serata di cui a lungo conserveranno memoria. Che la bellezza della musica e del messaggio sociale del progetto Abreu, Orchestra del Venezuela, possa servire da apripista in questi tempi bui in cui la bellezza come valore assoluto pare essere spesso negletta, se non del tutto smarrita.