Per i tipi di Zecchini esce l’attesa indagine di Misha Aster sulle oscure vicende di una delle più celebrate orchestre del mondo
di Francesco Fusaro
I rapporti fra musica e potere politico sono diventati, nell’ultimo periodo, uno dei campi più seguiti dalle indagini storigorafiche di matrice musicologica. Spesso si è trattato di studi volti a chiarire la posizione – morale prima che politica – di importanti personaggi del mondo musicale: un esempio per tutti quello – doloroso e complesso – intercorso fra Šostakovič e il regime comunista, e più direttamente con lo stesso Stalin. Accogliamo dunque con favore un volume come quello del canadese Misha Aster dedicato ad un capitolo ben poco noto della storia dei Berliner Philharmoniker, ovvero quello relativo alle relazioni intessutesi a livello politico, finanziario e artistico fra la compagine orchestrale più importante della Germania ed il Terzo Reich. La convincente documentazione – impressionante per mole – accumulata dallo studioso offre uno spaccato che guarda alla storia dei Berliner fra il 1933 e il 1945 come esempio paradigmatico delle condizioni della società tedesca ai tempi del dominio nazista. Un racconto che, in tempi di fanatismi politici e religiosi come il nostro, non può non suscitare una severa e profonda riflessione. Lungi dall’esprimere giudizi morali sull’operato dell’orchestra, Aster scava nella complessa trama di relazioni che presiedettero al passaggio dei Berliner da azienda autonoma a estensione del Ministero per la Propaganda Nazionalsocialista, da orchestra ‘locale’ a gioiello di rappresentanza della supremazia artistica della Germania nel mondo.
L’indagine, divisa in sette esaurienti capitoli, racconta con profusione di dettagli molte vicende sino ad ora mai così apertamente divulgate: i Berliner Philharmoniker furono i primi ad inaugurare un sistema di partecipazione statale alla gestione economica dell’orchestra, cosa che avrebbe dovuto garantire la sopravvivenza dell’istituzione e – al Reich – una finalizzazione della produzione artistica a consolidamento della dottrina nazionalsocialista. Così invece sempre non fu, come dimostrano ad esempio i programmi dei concerti: la transizione verso un repertorio classico-romantico di marca esclusivamente tedesca era un fatto già con l’avvento di Fürtwangler in qualità di direttore artistico dei Berliner. E certo, in un misto di opportunismo e necessità, i Berliner seppero approfittare delle occasionali prestazioni imposte durante gli eventi del NSDAP per consolidare lo status acquisito nel sistema musicale tedesco (uno status che permise alle mogli dichiaratamente ebree di alcuni membri dell’orchestra di assistere ai concerti anche oltre la promulgazione delle odiose leggi razziali).
La ricchezza di informazioni fornite da Aster, lontana dall’affaticare la lettura, dona alla narrazione una tensione interna notevole e rende plausibile la tesi secondo la quale i Berliner, proprio in virtù della posizione di netta dominanza artistica rispetto alle altre grandi orchestre tedesche dell’epoca, seppero mantenere un certo grado di autonomia nei confronti delle – spesso – insolenti pretese della propaganda di regime, favorendo anche la transizione dell’istituzione nel difficile e controverso periodo della de-nazificazione, trattato nell’epilogo. Una lettura vivamente consigliata a chi consideri la musica quale espressione non solo puramente artistica ma prima di tutto sociale.
Anche la produzione musicale si collega strettamente al periodo che l’ha generata e ci aiuta a leggerne le peculiarità: che si tratti di stimoli creativi, di forti condizionamenti, di ribellioni coraggiose o di ricerca pura. Però fa piacere trovare in questa bellissima recensione che i grandi interpreti e la grande musica riescono a mantenere froza, passione, autonomia al di sopra dei periodi storici, anche i più infelici, e continuano a mantenere viva la tradizione del bello attraverso il loro spessore culturale
Un’ottima recensione (da profana)