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Opera • Una compagnia di canto con punte di eccellenza nell’opera verdiana andata in scena al Carlo Felice con la regia di Henning Brockhaus e la direzione di Andrea Battistoni
di Ilaria Badino
[IL] cast assemblato dal Teatro Carlo Felice per questo Macbeth, terzo titolo della stagione, presentava, perlomeno sulla carta, punte di eccellenza che hanno destato un certo interesse fra appassionati d’opera (nota di colore: in sala era presente Sergio Cofferati, da sempre melomane dichiarato) ed operatori del settore.
Di Maria Guleghina s’intuisce la zampata da padrona della parte monstre tenuta a battesimo nella primigenia versione fiorentina nel 1847 da Marianna Barbieri-Nini ed eseguita, dopo il rimaneggiamento parigino subito dall’opera per mano dello stesso Verdi nel 1865, in prima italiana alla Scala nel 1874 da Antonietta Fricci. L’interprete è temperamentosa, sprezzantemente sadica, e gli acuti sono ancora di prodigiosa potenza, nel segno di certa scuola di soprani drammatici slavi di cui Ghena Dimitrova è stata somma esponente; tuttavia, i gravi che, in occasione del Sant’Ambrogio mutiano del 1997, erano sonori ed incisivi, sono qui parsi assai indeboliti e, allorquando riuscivano voluminosi, risultavano artefatti in modo eccessivo. Le agilità vorticose della cabaletta «Or tutti sorgete» sono state spianate o risolte in maniera arruffata, ma questo, in realtà, in maniera non dissimile da una ventina di anni fa. Suggestivo l’escamotage di sostituire il melologo della lettera tradizionalmente eseguito dal vivo (nonostante esista un percorso parallelo in cui esso è proposto al pubblico con la voce preregistrata del baritono) con un’incisione in cui le voci dei due diabolici coniugi si intrecciano sfasate fino al ricongiungimento in sincrono nella frase finale «Racchiudi in cor questo segreto. Addio», quasi un sigillo della morbosa simbiosi che contraddistinguerà l’agire della coppia da quel momento in poi.
George Gagnidze è baritono onesto, che canta con voce densa (tuttavia quasi tutto in forte, quindi ricercando solo sporadiche variazioni dinamiche), ma questo ovviamente non basta a rendere la complessità di un personaggio dilaniato come quello del sire di Glamis.
Dopo la non esaltante prova della scorsa primavera come Enrico VIII nell’Anna Bolena al Maggio Musicale Fiorentino, Roberto Scandiuzzi sembra essere tornato il basso «de’ verd’anni» suoi: la cavata è quella profonda e nobile, ampia e carezzevole che l’ha reso uno dei cantanti italiani più richiesti nel mondo negli ultimi vent’anni. Si apprezzano moltissimo, inoltre, le smorzature che, nei passi di maggiore angoscia dubbiosa, ammorbidiscono la voce senza però affievolirla. Magistrale l’esecuzione dell’arioso «Come dal ciel precipita», reso con sommo aplomb pur nel tormentoso presagio che qualcosa di nefasto sta per accadere, e felice anche la scelta registica secondo la quale Banco muore sua sponte gettandosi sulle spade dei sicari prima di venir trucidato per mano loro, riconfermando una volta di più il proprio eroismo da grande condottiero.
Rubens Pelizzari, Macduff che dopo aver trucidato Macbeth s’impossessa della di lui corona arrivando fin quasi a cingersene il capo, come se essa fosse una specie di amuleto maledetto che fa ammalare d’una funesta sete di potere chiunque la tocchi, è dotato di bello squillo e ben risolve l’aria del quart’atto «Ah, la paterna mano» (non ci si formalizza di sicuro di fronte ad un acuto un po’ sporco nel finale, soprattutto in stagione di fisiologici malanni), sebbene forse potrebbe profondersi in maggior cura del legato. Di buon livello Sara Cappellini Maggiore quale Dama di Lady Macbeth e Francesco Verna come Medico, mentre non indelebile la prova di Vincenzo Costanzo nei panni di Malcom (anche se a suo discapito va detto che il ruolo è davvero ingrato, in quanto miserrimo).
Della regia di Henning Brockhaus s’è già in parte accennato. L’idea di fondo è quella di sottolineare la commistione tra mondo dei vivi e mondo dei morti, stato di veglia ed allucinazioni frutto di una condotta tutt’altro che integerrima, e s’impernia su una serie di soluzioni visive di forte impatto. Tra di esse quella in cui, nella scena del brindisi, Macbeth, perseguitato dal rimorso di aver fatto assassinare Banco, lo rivede dietro ad una superficie specchiante cingergli la figura ogniqualvolta si sieda a capotavola, come fosse un’inesorabile morsa prefigurante il suo destino senza scampo; l’andamento circolare ed il lento ed estenuato procedere dei coristi durante «Patria oppressa», che ricordano quello tristemente celebre degli internati nei lager nazisti; infine, una videoproiezione della foresta di Birna che s’ingigantisce via via a dare l’impressione di stare pericolosamente avvicinandosi al pubblico, com’è stato in occasione della prima del cortometraggio L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat dei fratelli Lumière.
Il maestro del Coro Patrizia Priarone, memore della volontà verdiana per cui la voce delle streghe dovrebbe risultare stridula, nonché del disco del 1976 targato EMI e diretto da Riccardo Muti (che di tale precisazione tiene conto), riesce ad ottenere un suono chioccio al punto giusto, soprattutto nella frase «Ho sgozzato un verro./E tu?» ed in tutta la stretta dell’introduzione. Il giovanissimo direttore Andrea Battistoni, a parte il trascurabile inciampo negli accordi d’esordio, mostra di prediligere piglio e baldanza, mettendo così in maggiore evidenza il lato guerresco ed impetuoso della partitura rispetto a quello fosco e tetro il quale – tra sordidi inganni, strisciante menzogna e disperato senso di colpa – aleggia su ogni brano, e che è forse l’essenza più vera della decima opera del Cigno di Busseto.
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Ho assistito all’ultima rappresentazione: teatro pieno (mi dicono che alla prima non fosse cosi’), spettacolo oliato alla grande. Una sospresa positivissima: cantanti, coro, direzione, tutto di alto livello e senza un filo di routine. Bene! Speriamo che il “feeling” tra pubblico e teatro riprenda, dopo i (troppi) scioperi e le (troppe) cattive gestioni.
d’accordo con questa recensione,e volevo sottolineare la positiva prova in rapporto alla sua giovane età del soprano del secondo cast Tiziana Caruso,anche se sarebbe meglio non cantare ruoli abbastanza pesanti a inizio carriera..
…. Dopo tanto é bello sentire che anche il NOSTRO Carlo felice é ritornato agli splendori dei verd’anni suoi……..
Plauso come al solito all’attenta nonché scrupolosa e affascinante critica di Ilaria badino !
Nicholas Tagliatini