Libri • Una colossale biografia della Colbran con un ricco apparato iconografico e documentario. L’autore, lo studioso Sergio Ragni, è anche un grande collezionista privato di “rossinerie”
di Ilaria Badino
[Egrave] la passione, come afferma l’autore stesso nei ringraziamenti che fungono da preambolo, è la ragion d’esistere di questa colossale opera, in bilico tra il divulgativo per l’agevolezza di lettura e lo strettamente specialistico per l’abbondanza delle fonti utilizzate ed inglobate (Sergio Ragni, Isabella Colbran, Isabella Rossini, 2 tomi, ed. Zecchini). La scelta di una struttura bipartita, con il corpo documentario relegato al secondo tomo, consente il rapido procedere nel primo, in cui in maniera iperdettagliata si snodano le vicende biografiche della cantante madrilena, scandite da un ricco corredo iconografico (185 stampe in bianco e nero e 54 tavole a colori): poche note a fondo pagina ne interrompono il flusso. Nello specifico, la seconda parte elenca e descrive documenti d’archivio, lettere, brani antologici, articoli, poesie encomiastiche, nonché i cataloghi della biblioteca musicale appartenuta alla Colbran e delle composizioni da lei realizzate, l’inventario degli effetti personali d’Isabella stilato dal padre di Gioachino Rossini, Giuseppe detto “Vivazza”, ed una cronologia il più possibile completa delle esibizioni colbraniane (alla quale si premette che rare sono le fonti che testimoniano la sua carriera nella natia Spagna in epoca ancora scolare). Passione, dicevamo, quale comune denominatore per circa milleduecento pagine di scritto, assecondata da quella tenacia incrollabile e da quella propulsione in parte misteriosa che animano tutti i melomani veraci.
Sergio Ragni, infatti, come egli stesso ha modo di affermare nell’intervista che segue, nasce come entusiasta della musica e s’affina “scientificamente” soltanto in un momento successivo della propria vita fino ad attestarsi a livelli di studioso. Le «smanie implacabili» dello scrupoloso musicofilo-musicologo di aggiungere sempre nuovi documenti alla già ingente mole accumulata avrebbero potuto procrastinare ad libitum la pubblicazione. Fortunatamente, la convinzione della bontà di dare alle stampe un corpus già enorme ha prevalso sulla volontà di posticipazione perenne: siamo così oggi in possesso di un libro comunque completo, che si attesta come un unicum nel panorama biografico delle personalità canore per grandiosità, precisione (non scontata in un libro redatto da un amatore) e slancio (non ovvio in un libro redatto da uno specialista del settore). La narrazione è condotta, quindi, con dovizia di particolari, con un’obiettività che traspare dalle stroncature enunciate nei confronti della pur tanto amata diva, da un’ironia nel guardare alle cose del mondo che accomuna tutti i rossiniani e che qui fa il paio con l’atteggiamento confidenziale che l’autore ha nei confronti sia dell’eroina protagonista sia del lettore, e con un tono di signorile riserbo negli anni della decadenza bolognese. Quest’elegante discrezione è, assieme all’uguale e contrario slancio vulcanico, la cifra più distintiva di quella napoletanità che fa di Sergio Ragni un incantevole prosatore.
Cominciamo con tre domande consequenziali. Com’è nata la sua passione nei confronti dell’opera?
«Appassionato di musica fin da bambino, l’assorbivo fisicamente incollato al pianoforte suonato da mia madre. Quando incominciai ad avere un’autonomia di giudizio, chiesi in regalo ai miei uno dei primi registratori a bobine. Era per me una specie di scatola magica con la quale immagazzinavo tutta la musica che trasmetteva la radio. La mia passione per l’opera risale agli anni della post-adolescenza. Mi affascinava e tuttora mi affascina la voce come strumento esecutore, così come lo sono un violoncello o un clarinetto, però con lo charme aggiunto di un’immediata ed esclusiva riconoscibilità dei diversi timbri: la Callas, la Ponselle, la De Los Angeles, la Popp… Si capisce che prediligo i soprani?»
Da dove la spiccata propensione per Rossini? Quali esigenze poetiche ed estetiche pensa che il Pesarese appaghi più degli altri compositori?
«I modelli di Rossini erano Haydn e Mozart, e Rossini è l’unico compositore italiano che possa avvicinarsi a quest’ultimo. Sono le ragioni della musica che mi fanno prediligere Rossini».
Tra i tanti creatori di ruoli rossiniani, perché questo amore sconfinato proprio per Isabella Colbran?
«Perché la Colbran era, prima ancora di una cantante, una musicista. La sua intesa con Rossini fu perfetta fin quando poté comunicare con lui attraverso una stretta collaborazione artistica. Quando il decadimento della voce le precluse la continuazione della carriera, venne meno anche il rapporto con Rossini. La Colbran fu musa ispiratrice e artefice delle protagoniste di opere come Otello, Armida, Ermione, Semiramide. Sarebbe a dire, la prima interprete di ruoli che sono vette raggiunte o raggiungibili solo da uno sparuto numero di primedonne».
Lei è un grande collezionista di “rossinerie” ed affini. Che lei sappia, detiene il primato in quantità, perlomeno tra i privati?
«Dei collezionisti che mettono a disposizione degli studiosi e degli appassionati i loro tesori sono certamente il primo. Esistono però collezionisti non altrettanto disponibili. Comunque per Rossini e l’opera del primo Ottocento credo di non avere rivali, dal momento che nel giro delle aste e degli antiquari ci si conosce».
Quali sono i pezzi in suo possesso di maggior valore economico? Quali quelli a cui è più affezionato?
«I pezzi più importanti sono da rintracciarsi negli autografi. I miei più pregevoli sono l’Archivio Vivazza, ovvero la raccolta di tutte le lettere che Rossini inviò al padre da Parigi, e alcuni autografi musicali come il finale alternativo per una ripresa a Bologna di Guglielmo Tell. Tra i pezzi ai quali sono più affezionato c’è una cassettina con una serie di oggetti appartenuti a Rossini: dalla penna agli occhiali, dal distintivo della Legion d’onore al sigillo per la ceralacca e così via. Sono poi arcifelice di possedere un ritrattino a matita della Colbran nel 1810, opera del pittore spagnolo José de Madrazo».
Com’è nata l’idea di un libro monografico su Isabella Colbran?
«Dal fatto che, pur essendo lei la cantante che maggiormente influenzò il melodramma italiano dell’Ottocento, nessuno le aveva mai dedicato una monografia. Tale mancanza era giustificata dalla sua presenza nei tanti volumi dedicati a Rossini. Ma in tutta la letteratura a lui consacrata la figura della Colbran è stata sempre individuata o come responsabile delle troppe fioriture nell’opera seria o come perturbatrice del Genio a riposo. In entrambi i casi fece da capro espiatorio di colpe, o presunte colpe, di esclusiva pertinenza di Rossini. Questo è il secondo motivo che mi ha indotto a scrivere di lei».
Quali ritiene siano le sue scoperte salienti (non soltanto a livello di materiale, ma anche di disvelamenti in termini di carattere della cantante madrilena e delle sue relazioni interpersonali) esposte in questa pubblicazione?
«Mi ricollego alla domanda precedente. Le mie ricerche portano alla non equivoca conclusione che nelle biografie e negli studi su Rossini a proposito della Colbran sono state scritte soltanto sciocchezze. La cantante madrilena era l’opposto di quanto generalmente tramandato. Alla sua autorevolezza di regina o di maga in palcoscenico corrispondevano, nella vita privata, un’arrendevolezza e una bontà d’animo addirittura sconcertanti. A carriera conclusa, divenne vittima di Rossini e della donna destinata a diventare la sua seconda moglie (Olympe Pélissier, ndr)».
Qual è il messaggio che vorrebbe i lettori inglobassero come “lezione” per mezzo del suo volume?
«Il seguente: per arrivare alla verità bisogna sempre andare a consultare non tanto i libri, ma i documenti. In questi ultimi si trovano sempre dati precisi, mentre nei primi spesso racconti riciclati e ripetuti, privi di fondamento storico. Mi sembra assurdo che ancor oggi ci sia qualcuno che continui a scrivere di Rossini senza aver letto, o dopo aver letto in maniera solo approssimativa, i volumi di “Lettere e documenti” (di cui lo stesso Ragni è curatore assieme a Bruno Cagli, ndr), ovvero l’epistolario, editi dalla Fondazione Rossini».
Nella prefazione al suo libro, Philip Gossett afferma che, a differenza di lei, crede nel reperimento di ulteriori testimonianze colbraniane. Cosa l’ha portata ad opposta convinzione?
«La mia affermazione voleva essere solo un omaggio all’enorme lavoro compiuto in ambito rossiniano da Gossett e dalla compagine di studiosi attorno a lui. Ma, come giustamente egli afferma, le ricerche non finiscono mai e Rossini continua a sorprenderci. Pure, bisogna riconoscere che egli è stato il primo compositore in Italia di cui è stata varata l’edizione critica delle opere. Nonostante queste precedenze, la sua musica non viene a mio avviso recepita nel suo effettivo valore e resta ancora oggi compresa appieno solamente da una percentuale piuttosto bassa di ascoltatori».
Tra gli altri primi interpreti di ruoli rossiniani, ce n’è qualcun altro che la intriga e, se sì, perché?
«Prediligo le voci femminili, quindi m’interessa soprattutto la conoscenza di personalità come quelle della Marcolini o della Righetti Giorgi, le quali, oltre a essere grandi interpreti, furono donne assai vicine a Rossini. Da buon napoletano sono però un appassionato ammiratore di quell’intera mirabile compagnia di artisti messa assieme da Barbaja nella mia città. Era una compagine che, dalle scene del San Carlo, richiamava anche l’attenzione dei giornalisti francesi, inglesi e tedeschi. Che tempi! Napoli era allora una fucina di cultura (nella fattispecie, di musica) esportata in tutto il mondo».
Particolare fascino ha la figura di Andrea Nozzari: per il tenore bergamasco fu scritto un ruolo protagonistico in tutte e nove le opere napoletane di Rossini, ma di lui non ci rimangono che un paio di bozzetti del Pregliasco e poche notizie biografiche. Come si spiega, secondo lei, questa scarsità d’informazioni riguardo al primo tenore dei teatri partenopei a quell’epoca? C’è un ulteriore fatto anomalo: nelle opere che non contemplano un altro tenore protagonista (e ci riferiamo soprattutto a Giovanni David, ovviamente), alla parte di Nozzari non viene mai riservata un’aria solistica (Rinaldo, in Armida, ha “soltanto” duetti ed il terzetto con altri due tenori; Osiride, in Mosè in Egitto, non detiene brani solistici, così come Paolo Erisso in Maometto II). Come se lo spiega?
«Condivido la simpatia per Nozzari, un cantante che, per quanto affermatissimo, resta ancor oggi alquanto misterioso. Le ragioni devono a mio avviso imputarsi alla riservatezza del suo carattere: egli non fece nulla per promuovere la propria fama. Bisogna infatti considerare che l’iconografia e la pubblicistica laudatoria che ci rimane di tanti suoi colleghi era quasi sempre frutto di autopromozione. Dobbiamo concludere che Nozzari fu schivo di onori e volle sempre e solo affidarsi al talento esercitato sulla scena. Credo che la non attribuzione di un’aria in tre delle opere che lo videro primo esecutore sia una scelta drammaturgica di Rossini; è probabile che, non dovendo accentuare il contrasto con un antagonista tenorile, il compositore non abbia ritenuto indispensabile caratterizzarlo con un’aria da contrapporre a quella di un rivale. Sempre a proposito del baritenore bergamasco, è interessante notare che, nel contratto da lui firmato con Barbaja, sottoscriveva l’obbligo di cantare anche “in qualità di basso in due soli drammi eroici o semiseri quando però la parte sia di prim’ordine”. Egli fu dunque costretto, nel 1819, a ricoprire il ruolo di Fernando nella Gazza ladra. In quell’occasione Rossini compose per lui l’aria “Barbara sorte” (Vedi Isabella Colbran, Isabella Rossini, p. 429)».
È suggestivo che il colloquio si concluda con quest’interessante considerazione, la quale sottolinea una versatilità, se non maggiore comunque differente, da parte dei cantanti lirici del primo Ottocento rispetto ai colleghi del XX secolo nell’affrontare parti tra loro molto diverse. Si era lontani da uno specialismo spinto che nel Novecento ha portato, in seguito alla formazione di uno zoccolo duro di repertorio sempre rimasto in circolazione, a categorizzazioni vocali precise e talvolta castranti secondo le quali foggiare le scelte di casting. Quando l’opera era ancora arte pulsante (e sarebbe ingenua illusione sostenere che adesso lo sia più di allora) e viveva anche di mera artigianalità e di convenienze teatrali, gli interpreti potevano – e talvolta, come nell’esempio riportato da Sergio Ragni, dovevano – spaziare in scritture disparate, sebbene ovviamente messi a proprio agio per mezzo di tutti gli accomodamenti del caso. Basti pensare che Giuditta Pasta e Maria Malibran si esibirono nell’Otello rossiniano nelle virili vesti del protagonista eponimo (avendo in repertorio anche Desdemona), o che il sivigliano Manuel García, primo interprete, fra le altre, delle parti schiettamente tenorili del Conte d’Almaviva nel Barbiere di Siviglia e di Norfolk in Elisabetta, regina d’Inghilterra, allargava il proprio ventaglio esecutivo dagli estremi possentemente baritonali del Conte d’Almaviva nelle Nozze di Figaro e del title role nel Don Giovanni mozartiani fino a quelli, più teneri ed aerei, di Lindoro nell’Italiana in Algeri e di Paolino nel Matrimonio segreto. Oggi, forse non a caso contestualmente con le riscoperte, le riproposizioni o le vere e proprie conclamate reinassances, questa settorialità pare superata e, più che ad incasellamenti arbitrari avallati dalla tradizione esecutiva, la decisione dell’indirizzamento artistico di una carriera sembra essere legata all’affinità dello spirito dell’interprete a quello del creatore del ruolo secondo quanto emerge dallo spartito. O, perlomeno, così sarebbe auspicabile che fosse.
Sergio Ragni, Isabella Colbran, Isabella Rossini | Zecchini, Varese 2012 | pag. 1226 € 75
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