Opera • Al Teatro Coccia di Novara il debutto operistico di Dario Argento, maestro italiano dell’horror, con un regia che usa effetti e colpi di scena da film B-Movie, ma con lo stile inconfondibile che lo contraddistingue
di Laura Bigi
CHI AVESSE ASSISTITO ALLA RAPPRESENTAZIONE DI MACBETH andata in scena a Novara nella scorsa fine settimana, che ha aperto con grande affluenza di pubblico la stagione operistica e di balletto del teatro Coccia, avrebbe con poco sforzo potuto indovinarne l’ideatore, non essendosi preventivamente informato sul nome. Dall’anno passato, che ha visto un cambio nella dirigenza del teatro, si è infatti inaugurata una nuova tradizione: ospiti illustri a firmare il primo spettacolo. Nel 2012 era toccato a Morgan di allestire Il Matrimonio segreto di Domenico Cimarosa, riuscendo tutto sommato nell’operazione di proporre un’interpretazione nuova e sensata; ora risponde alla chiamata Dario Argento in persona, l’universalmente noto maestro italiano del brivido, il quale si cimenta nella sua primissima regia d’opera. Nessun altro soggetto si accorderebbe ad Argento meglio di Macbeth, almeno in teoria.
«Ambienterò l’opera durante la Prima Guerra Mondiale, il conflitto più feroce e sanguinario. Proietterò scene di battaglie e bombardamenti, spiegherò cosa vuol dire prendere il potere col sangue. […] Macbeth è la tragedia di Shakespeare più cruenta, tra delitti e spettri, perfetta nella sua crudeltà per creare un clima d’angoscia. Naturalmente userò gli effetti speciali. […] È una tragedia adatta a me: Macbeth e la moglie sono una coppia diabolica, lei forte, lui più servile»

Queste le dichiarazioni del regista, che fanno presagire uno spettacolo cruento e crudele di forte impatto, vale a dire una versione teatrale di ciò che lo ha reso famoso e apprezzato da certo pubblico: l’inquietudine, il mistero, il sangue. Orbene, l’ambientazione è quella di una sanguinosa guerra, la quale, per dirla tutta, se non fosse per le immagini che mostrano soldati e trincee proiettate sul telo nero prima che il sipario si schiuda, potrebbe essere una qualsiasi, mancando, poi, altri specifici o riconoscibili riferimenti alla Prima Guerra. Quindi la scena si apre su di un piano inclinato che mostra gli effetti terribili e raccapriccianti delle battaglie: due bambole impiccate sullo sfondo, un cavallo in cartapesta stramazzato, due manichini (parrucca sintetica traslucente compresa) mancanti di qualche arto. Dario Argento.
Il clou di tutta la rappresentazione sono stati, non potevano che essere, i delitti. Con effetti speciali, come promesso
La prima trovata registica si impersona nelle streghe, le quali, lungi dall’essere un coro di canute, laide e deformi figure, sono al contrario tre giovani ballerine, scarmigliate ma seducenti in costume adamitico. Siccome le ballerine ballano – perlopiù si contorcono diabolicamente come si conviene alle streghe – ma non cantano, è il coro femminile (di contadine) a fare la fatica di aprire l’atto: quindi canta in vece di o meglio per possessione. Il clima da horror già si svela. La seconda trovata registica, forse un po’ meno identificativa del genere e dell’allestitore, ma che costruisce il binomio perfetto (secondo il luogo comune) con i fiumi purpurei degli ammazzamenti, è il sesso della scena II dell’atto II, ovvero la scena dell’amplesso. Perché nonostante il libretto preveda Lady M. sola (è l’intensa aria e già folle La luce langue) Argento, forse spinto dall’indicazione con trasporto si immagina proprio la voluttà, non solo del soglio. L’eros, più o meno esplicito, non è una novità nelle regie teatrali ed operistiche, e la Lady di questa produzione sembra esserne ossessionata non meno che dalla sanguinosa brama di potere, così non appena ne ha occasione – quindi in tutti i duetti – si avvicina maliziosa e con gesti che diremmo persuasivi conquista il benestare del già persuaso, “più servile” marito, per gli atti efferati.

Il clou di tutta la rappresentazione sono stati, non potevano che essere, i delitti. Con effetti speciali, come promesso. Quelli degli anni ’70-80, quelli smaccatamente costruiti, che volendo simulare il vero, lo fanno non per evocazione o suggestione, ma con il gusto artificioso del trucido, che suggerisce subito finzione, allontanamento dalla partecipazione al dramma.
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Morte di Duncano. Da una finestra alla destra del palco, vetro appannato, sarebbe la stanza di Duncano nel castello dei Macbeth: si vede Macbetto pugnalare con adeguata affettazione e lentezza; quindi il re, molto ricoperto di sangue, si appiattisce sul vetro mostrandosi al pubblico (vedi foto).
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Morte di Banco. Nella foresta (alcuni tronchi) i sicari circondano Banco; con lance (non fucili a baionetta) trafiggono Banco al ventre ripetutamente per permettere alle sacche di inchiostro rosso di rompersi e procurare l’effetto desiderato.
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Morte di Macbeth. La firma del regista. Il protagonista ormai sa che MacDuff deve ucciderlo: si abbandona sulla poltrona, intanto entra (goffamente) un drappello di soldati che circonda Macbeth e fa il gesto di pugnalarlo; quindi il drappello si allontana (compatto) avendo lasciato sulla poltrona un manichino in plastica in sostituzione dell’uomo in carne e ossa; MacDuff con la sua spada spicca la testa al fantoccio e da quel tronco sprizza verticale un fiotto di sangue; MacDuff, con orgoglio, mostra la testa del nemico sconfitto al pubblico.
L’effetto generale è perlomeno grottesco e fa sorridere. Risparmiando questi colpi di scena in pieno stile B-Movie, la regia non si nutre di molto altro: il fantasma di Banco non è altro che lo stesso cantante con ancora indosso la camicia insanguinata, sorriso sardonico e occhi sbarrati; la scena del sonnambulismo non ha davvero nulla di notevole, se non l’abito bianco da estetista di Lady M. Buona, invece, la prova dell’orchestra e dei cantanti. A dirigere l’Orchestra Filarmonica del Piemonte è Giuseppe Sabbatini, gestualità ampia un po’ eclatante ma il suono è equilibrato e solenne all’occasione, molto poco bandistico se dovesse esserci ancora il rischio al giorno d’oggi.
Molto bene la Lady di Dimitra Theodossiou, che ha confidenza col ruolo, la sua vocalità piena e sicura le consentono di essere a suo agio nei panni della sanguinaria. Meno piena la voce di Macbeth (Giuseppe Altomare) comunque corretta, mentre la recitazione è carente e si veicola perlopiù attraverso il movimento delle sopracciglia. Molto bene anche il Banco di Giorgio Giuseppini e il Malcom di Ernesto Petti, sicuri per quel che compete loro. Dario Di Vietri è un MacDuff dalla vocalità giovane, come la sua età, ma nel complesso fa una buona prova e riceve il caloroso apprezzamento del pubblico. Al coro, diretto da Mauro Trombetta, nel suo insieme va il merito della scena la più suggestiva dell’intera opera, quel Patria oppressa! inno alla libertà.
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