
È andata in scena al Teatro Massimo l’opera di Jaromír Weinberger, il compositore che definì Berg come «il genio della distruzione». Allestimento della Semperoper Dresden, regìa di Axel Köhler
di Monika Prusak
È INIZIATA CON LE PAROLE DI SOLIDARIETÀ all’organico orchestrale e corale dell’Opera di Roma – in vista dei licenziamenti di massa previsti per l’inizio del 2015 –, la prima di Švanda, dudák di Jaromír Weinberger andata in scena il 19 ottobre scorso al Teatro Massimo di Palermo nell’allestimento della Semperoper Dresden con regìa di Axel Köhler, scene di Arne Walther, costumi di Henrike Bromber e luci di Fabio Antoci.
Raramente eseguita, la Volksoper di Weinberger è incentrata su Švanda, un abile suonatore di cornamusa, marito della fedele Dorotka che, invogliato dal famoso ladro Babinský, parte all’avventura per salvare la triste e bella regina Cuordighiaccio. Il libretto di Miloš Kareš si ispira liberamente a un classico della letteratura ceca ottocentesca, Strakonický dudák aneb Hody divých žen [Il suonatore di cornamusa di Strakonicé o La sagra delle donne selvagge] del drammaturgo Josef Kajetán Tyl. Il testo presenta altri riferimenti ottocenteschi dal Faust goethiano alle fiabe di Andersen, con una notevole influenza di storie popolari come nel caso di Babinský, il leggendario ladro e omicida praghese che nell’opera diventa una sorta di Robin Hood boemo. I protagonisti e le scene sono ritratte in maniera ironica, per cui è evidente il lato comico della vicenda che non rinuncia, tuttavia, a momenti di profonda riflessione. Alla luce della biografia complessa e tragica di Weinberger, Švanda, dudák sembra un’opera che preannuncia la nostalgia per la patria che accompagnerà il compositore di origine ebrea negli anni della guerra e della persecuzione nazista, quando sarà costretto a emigrare negli Stati Uniti dove morirà suicida nel 1967. Il protagonista Švanda parte da casa in cerca di avventure, ma una volta finito all’inferno canta un inno alla patria sentendone una profonda e incolmabile mancanza. Egli è figlio di una fata che gli aveva donato una cornamusa dotata di eccezionali poteri come quello di «destare alla nuova vita» o di «scacciare il peccato». Sarà lui «il primo re a governare con la melodia» e a «regnare con l’armonia»: il messaggio di Weinberger sulla necessità di ritornare ai modelli remoti appare evidente man mano ci si addentra nel tessuto sonoro dell’opera, ricco di reminiscenze e riferimenti ottocenteschi, rielaborazioni delle formule tematiche e stilistiche già impiegate da Smetana, Dvořak, Reger, Richard Strauss e Korngold. «Berg è stato il genio della distruzione – scriveva Weinberger – Io sono un artista del passato. Obbedisco alla legge e mi arrendo al suo potere immutabile. Solo la legge porta libertà». Il suo attaccamento alla musica del passato, spiegato come una reazione necessaria alla distruzione della “legge” da parte dei compositori dell’avanguardia, fece in modo che il pubblico praghese non riuscì mai ad accettare l’opera perché troppo legata ai vecchi stili e tecniche compositive e a quel patriottismo nostalgico, che agli inizi del Novecento risultava piuttosto antiquato. L’opera divenne famosa soltanto dopo l’adattamento in lingua tedesca del biografo kafkiano Max Brod, che con la sua fama e il suo potere negli ambienti artistici riuscì a portarla nei più importanti teatri del mondo compreso il Covent Garden di Londra e il Metropolitan Opera House di New York.
La produzione di Dresda andata in scena al Teatro Massimo di Palermo, riesce con maestria a trasmettere la leggerezza dei temi popolari di Švanda, proponendo uno spettacolo eccellente di scene, luci e costumi, che colorano un’azione rapida e coinvolgente. L’impianto scenografico di una serra semplice ed efficace ancorata su una base leggermente inclinata viene usato inizialmente per definire la piccola casa di Švanda e Dorotka, per diventare successivamente una costruzione gigantesca a tre pareti. La parete posteriore rimane mobile come il portellone di una nave spaziale o di un castello galattico, lasciando all’esterno immagini stellari o celestiali, che danno l’impressione di una tridimensionalità dello spazio scenico. Il passaggio cruciale tra il castello della Regina Cuordighiaccio, popolato di personaggi surreali vestiti d’argento glaciale, e l’inferno con fumo e caratteri diabolici, si ottiene attraverso il cambiamento delle luci e l’aggiunta di qualche oggetto scenico, creando un effetto visivo sorprendente e inaspettato. Gli spazi della serra accolgono con successo la massa di coristi, mimi e danzatori, che grazie ai meravigliosi costumi, accentuano il carattere fiabesco della rappresentazione.
Pavol Kubáň è un eccellente Švanda, furbo e curioso come prevede il libretto, in più dotato di una voce suadente e adatta alle melodie sinuose di Weinberger. Sorprende la linearità del personaggio che, attirato inizialmente dall’invito dell’astuto Babinský, nel corso dell’opera comprende evidentemente i suoi errori: l’abbandono e il tradimento di Dorotka, nonché l’abbandono del paese natìo. Appare meno convincente dal punto di vista vocale il Babinský di L’udovít Ludha. L’interprete trasferisce comunque una notevole resa scenica a questo personaggio complesso e docile allo stesso tempo, perso in un amore irrealizzabile per la bella moglie di Švanda. Marjorie Owens completa una coppia eccellente con Kubáň. Lei è una Dorotka gentile ma decisa, fedele ma esigente, forte ma coerente. La cantante dalla notevole presenza scenica, non perde nemmeno per un attimo la giusta tensione del personaggio, costruendo una Dorotka lineare e ferma. Tra i personaggi secondari ma di pari importanza per lo svolgimento dell’azione, eccellono lo Stregone del castello interpretato da Roberto Abbondanza e il Diavolo, recitato in maniera pregevole da Michael Eder. È proprio il Diavolo ad accendere la vena comica di Weinberger: il personaggio è debole e poco sveglio e appare nell’opera come un riflesso ironico di Mefistofele, un vero angelo caduto, un poveraccio solitario privato di ogni piacere della vita.
Merita un’attenzione particolare la parte musicale della rappresentazione, guidata dalla bacchetta attenta e sapiente di Mikhail Agrest. Nonostante la poca precisione nell’Ouverture, l’andamento sonoro di questa mescolanza intelligente di temi, stili e strumentazioni che Weinberger offre allo spettatore, è diventata nelle mani del direttore russo una meravigliosa colonna sonora per le immagini sceniche sempre più complesse. La ricerca sonora di Agrest si concentra sulla trasmissione dei sentimenti e degli “affetti” che la musica suscita, partendo dalla preoccupazione di Dorotka per l’amato Švanda, per arrivare alla sua caduta sul palcoscenico in segno di rassegnazione al momento della discesa all’inferno del marito. Agrest sceglie un tema conduttore, che è quello indicato da Weinberger, in un breve incipit di Dorotka: «Nel nostro cortile odo gracchiare quel gallo / Davvero non riesco, a scordare il mio bello!», che diventa metafora non solo dell’amore della ragazza, ma anche di quello per la patria evocato all’inferno da Švanda. Risuonano con temperamento e forza i temi popolari boemi inseriti da Weinberger in diversi momenti dell’opera, ma anche la famosa Polka del I atto e la Fuga del II atto. Il luogo in cui Agrest riesce a “dipingere“ meglio i contenuti sonori è l’inferno, la cui elaborazione musicale – forse non a caso – mette Weinberger in linea con l‘odiata avanguardia.