In scena ieri la prima esecuzione assoluta dell’opera, produzione e commissione del Teatro Comunale
di Giampiero Cane
LA RAGIONE PRIMA PER CUI è da credere che Il suono giallo, “Opera in un atto” di Alessandro Solbiati non potrà essere un successo sulle scene teatrali né affermarsi deriva dal fatto che questa pièce semplicemente non è affatto teatrale. Le manca del tutto un supporto drammaturgico che la possa destinare alle scene. Spesso abbiamo sentito discutere sull’importanza dei libretti per il successo delle opere, avendo per lo più occasione di notare che persino i melomani credevano poco all’incidenza del libretto nelle opere anche di più diffusa conoscenza popolare.
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Da critici musicali però ci siamo fatti la convinzione che le cose vadano all’opposto e che, dunque, se un’opera di Rossini non ha successo, anche se le musiche di cui è fatta sono le stesse che hanno dato successo a un’altra, ciò si debba a un libretto incomprensibile, poniamo, o bolso, o affatto insensibile alle ragioni della drammaturgia. Le quali, in senso opposto, operano positivamente per una muffa come l’Ave Maria nel finale d’Otello, dopo il salice, che pur banale com’è e ridondante e prevedibile in ogni suo passo da sembrare una canzone folk, per il contenuto stereotipo che assume nella situazione riesce ad avere successo (anche se è quel che è). Ma Verdi aveva quella tensione alla drammaturgia del palcoscenico che lo portò a teorizzare la parola scenica.
In ciò Solbiati è all’opposto. Egli è più antidrammaturgico di Wagner, per il quale quasi mai in scena accade ciò di cui si dice, giacché è già accaduto, sta accadendo altrove o accadrà in seguito. In questo suo lavoro la tensione drammatica è quella di una cerimonia.
Ciò detto, aggiungeremo che nell’ambiente circolavano voci di contrasti tra il compositore e il regista della messinscena, dovute al fatto che quest’ultimo non avrebbe seguito alcune indicazioni, scritte o verbali non sappiamo. Ma se questo non teatro finisce col rappresentarsi come una simulazione di teatro è per una messinscena che dal lato registico è insopportabilmente tardo-sessanta, ma si avvale di una scenografia, di Gianni Dessì, che è l’unica componente teatrale di qualità di un assemblaggio che è un baraccone di velleità dissimulate.
Forse varrà la pena ricordare che stiamo occupandoci finora solo degli aspetti della messinscena di questa simulazione d’opera teatrale-musicale. Va detto, perché pregevoli erano invece le qualità esecutive e della conduzione dell’orchestra, dei cori e dei personaggi, ovviamente in quest’antidrammaturgia, non figure rigorosamente senza nome (il quale del resto non sarebbe servito a nulla).
Nella creatività di Alessandro Solbiati il tutto è mosso dal lavoro scenico di Vasilij Kandinskij Der gelbe Klang, Il Suono giallo appunto, testo forse assai importante per i vaneggiamenti dell’astrattismo, un’ebbrezza “disimpegnata” dopo lo Sturm und Drang, ma un desiderio d’infantilità / purezza / non compromissione che dovrebbe essere un tacito e taciuto consenso al Leopardi che predica la fatalità del dì natale, ma che non sa, non vuole, non riesce ad essere così, forse perché è russa.
Se c’è della gioia nei tratti di Kandiskij, qui non ve n’è traccia. È tutto uno strano cerimoniale probabilmente d’ispirazione prerinascimentale – c’è da pensare a Gesualdo. Ma ci si provi a mettere in successione i suoi madrigali, e ne verrà fuori un teatro delle lamentazioni, una settimana santa che non c’è nessuno che pensi sia teatrale, al di là delle cerimonie folkloristiche.
Soprattutto la sua concezione timbrica non destina questa musica al teatro. Ci sono tre cori che si stanno addosso, ma producono la stessa omogeneità. Diciamo che Solbiati non chiama scene il non accadere che non si sussegue, ma capita, di questa sua Opera in un atto. Le chiama Quadri e fa un po’ un giochino con Musorgskij, tale per cui tra un quadro e l’altro inserisce non una promenade, ma un intermezzo. Questi sono sette e hanno una certa varietà timbrica oltre alla capacità di suggerire che ci sia una vaga possibilità di fantasticare oltre il lucchetto del suono giallo. Che del resto non si saprà mai cos’é.
Nel libretto di sala l’elenco dei personaggi comprende i Cinque giganti, i soli a tratti solisti, e due Cori, uno “piccolo misto in scena” e uno grande. Il tutto è stato diretto da Marco Angius, impegnato con esecutori che a volte non vede, ma dai quali è visto tramite teleschermi. Perciò, niente da lamentare.
Il risultato ci dice anzi, che se questa composizione di Solbiati fosse acquisita come una cantata probabilmente potrebbe insediarsi nel repertorio contemporaneo (per la consistenza e il peso che esso ha). I cinque solisti erano Alda Caiello, Laura Catrani, Paolo Antognetti, Maurizio Leoni e Nicholas Isherwood. Hanno tutti raccolto un buon applauso, forse il tenore Antognetti qualcosa più degli altri (ma sono strane manifestazioni di simpatia, non valutabili).
La regìa di Franco Ripa di Meana, un po’ di generico teatro della crudeltà, mischiato a mestiere anni Sessanta è stato tenuto a galla dal fatto che non c’era altro, e che dunque all’occasione era la miglior regìa possibile, ma soprattutto da una scena di lucidi giochi tra surrealismo freddo e finto realismo brut, ideata da Gianni Dessì.
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