Spettacolo d’impatto per scene e regìa di Stefano Poda. Noseda dirige una splendida orchestra del Regio
di Attilio Piovano
SPETTACOLO DI GRANDE o, più propriamente, di enorme impatto visivo quello di Stefano Poda al Regio di Torino: poliedrica personalità, regista, scenografo, costumista e coreografo il colto (e geniale) Poda firma altresì le luci, col risultato di uno spettacolo coerente e unitario, modernissimo e a nostro avviso davvero coinvolgente. Un Faust, il suo, andato in scena mercoledì 3 giugno 2015 con un ampio successo di pubblico (molti i giovani in sala e fa piacere rilevarlo, tra i quali numerosi studenti del Workshop di Scenografia, musica e teatro frutto della collaborazione tra il Regio e il Politecnico di Torino coi quali Poda si è a lungo intrattenuto nell’intervallo svelando alcuni ‘segreti’ di questa produzione); una coproduzione tra Regio, Israeli Opera Tel Aviv e Opéra Lausanne per il titolo di maggior rilievo nella produzione di Gounod, che al teatro torinese si era visto l’ultima volta nel 2003 con la regìa di Hugo de Ana.
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L’idea di fondo di Poda è semplice e complessa al tempo stesso: semplice, in quanto un unico vistoso elemento scenico domina l’intero spettacolo assurgendo di volta in volta a simbolo dello studio di Faust, della taverna, di un giardino, di una chiesa, per divenire quindi l’inquietante location della notte di Valpurga e, da ultimo, luogo della redenzione con il coro inneggiante alla resurrezione di Cristo e alla redenzione di Margherita la cui anima è salva. Si tratta di un imponente cerchio, un anello di parecchi metri di diametro e notevole ‘spessore’ tanto da essere praticabile e far sì che i cantanti ci possano salire e camminare. Complesso, nel contempo, in quanto detto cerchio-anello è movimentato da un ‘pistone’ a vista: ora si solleva in verticale, ora resta reclinato, ora si adagia sul palcoscenico, ruotando su una piattaforma girevole come quadrante di simbolico orologio sulla quale anche i coristi ed i cantanti prendono posto (suggestivo l’effetto delle masse corali che avanzano, camminando, ma in realtà restano ferme, dacché il loro camminare – come una fatica di Sisifo – è neutralizzato dal ruotare in senso opposto della piattaforma). Prevalgono i simbolici colori di bianco e nero, e non solo alle pareti squadrate, talora con senso di ‘chiuso’, talora, come nel finale, con senso di metafisica luminosità, ma anche il rosso dei vestiti, assai suggestivi con assonanze alla moda anni ’40: rosso ad indicare la passione, il sangue, i sensi, l’amore e il sesso che dominano nel plot del Faust.
Molti altri (simbolici) elementi vi si aggiungono: allusive e rotanti clessidre a suggerire il flusso del tempo (lo stesso ruotare del cerchio ci pare una trasparente simbologia in tal senso) e un ‘biblico’ cumulo di libri per lo studio di Faust, i libri che egli ha letto per una vita intera restandone deluso e inappagato sui quali vengono deposte teste di vitello, a simbolo di idolatria, uno stilizzato e scheletrito albero bianco, ma anche il cofanetto (rosso) dal quale Margherita attinge i gioielli (e un vestito luccicante di cristalli). Ancora, la presenza inquietante di una figura infantile, specie di angioletto a simbolo d’innocenza – un flash forward a rendere palpabile il successivo infanticidio – e molto altro ancora. Impossibile enumerare tutto, ma almeno varrà la spesa sottolineare il suggestivo effetto derivante dall’apparizione di una croce, dapprima ‘intagliata’ in un disco che si adagia sul cerchio protagonista, e che poi si erge e si fa di sola luce con effetto molto impattante (nel senso più positivo del termine); per par condicio, l’oppressione del carcere è resa da corde tese dal cerchio al proscenio a rendere il senso oppressivo e claustrofobico della prigione a simbolo della colpa, strappate poi con ‘lacerante’ gesto da Margherita stessa. E che dire delle coreografie? Quell’effetto ‘onda’ delle mani abbracciate dei ballerini rossovestiti nel second’atto ed i mimi nudi, ma coperti di un prodotto che li fa apparire fumé: e in tal modo Poda ha risolto il non facile problema dei balli che risultano diversamente sempre un po’ estranei, come forzosamente inseriti, pur secondo la miglior tradizione del grand-opéra francese. Così pure con movimenti molto misurati e sobri, simmetrici e regolari, il regista è riuscito a rendere il non facile finale, quel che di irrisolto che la partitura innegabilmente contiene, quel catartico (e un po’ incomprensibile) redimersi di Margherita a fronte dell’incognito destino di Faust – ma che emozione in precedenza quel muoversi di mani, quel formicolare come di umanità disperata, e poi le donne vestite di nero con la simbologia di palloncini fatti esplodere, e l’apparizione di Margherita in rosso e incinta.
Se il versante scenico ragionevolmente ha colpito oltremodo il pubblico regalando emozioni di vasto respiro, altrettanto efficace e di alto livello è stato il versante musicale. A governare il tutto, dal podio, con mano sicura e giusti tempi, la bacchetta esperta di Gianandrea Noseda che sull’orchestra ha compiuto un lavoro immane di cesello in sede di concertazione. E si sente. Un’orchestra in gran forma, con passi solistici affrontati con perizia notevole (e un plauso a tutte le prime parti, dalle arpe agli ottoni, dalle percussioni ai legni e il rischio è sempre di tralasciare qualcuno; tra i tanti da segnalare, Laguzzi per la performance organistica che ben si integra con la compagine orchestrale – delicato e difficile andare insieme, ma ci sono riusciti perfettamente). Un’orchestra che sotto la guida duttile della mano di Noseda ha sfoderato clangori immani e rarefatti pianissimi, restituendo il senso della massa nei passi in guisa di danza, ma anche al rientro dei soldati, e nel contempo sottolineando la tragicità di non pochi passaggi, e i momenti intimisti di cui la partitura è costellata. E se il terz’atto risulta un poco più greve degli altri, con qualche ristagno, il ‘difetto’ è nella partitura stessa che, al contrario, negli altri atti presenta gemme melodiche preziose, empiti sinfonici, alternando vaghe assonanze wagneriane e lirismo tipicamente francese in un mix di grande fascino. Del resto che Faust sia un capolavoro è risaputo, piaccia o non piaccia questo genere di opera; prendere o lasciare.
Ed ora le voci. Il soprano Irina Lungu, meritatamente applaudita con convinzione a fine spettacolo, è parsa a posto: una Margherita convincente per vocalità e presenza scenica, molto buona nella non facile parte, una parte tutta in crescendo la sua, con apici emotivi nella canzone «Il était un rois de Thule», giocata su effetti di lanterna magica, sino al non facile finale catartico. Molti gli applausi all’indirizzo del basso Idar Abdrazakov, un Méphistophélès assai convincente e ‘di peso’ sulla scena, vocalmente di gran rilievo. Meno conviti (non del tutto a torto) gli applausi per il tenore Charles Castronovo (se l’è cavata dignitosamente nell’impervia «Salut! Demeure chaste et pure» del II atto), ma avremmo voluto giganteggiasse un poco di più nel ruolo di Faust e fosse meno ‘trattenuto’, pur avendo affrontato la partitura con scrupolo e precisione. Bene i comprimari (il baritono Vasilij Ladjuk nei panni di Valentin fratello di Margherita, il mezzosoprano Ketevan Kemoklidze, ovvero il timido e sognatore studente Siebel e il mezzosoprano Samantha Korbey nei panni di Marthe, custode di Margherita dai tratti sensuali come prevede la partitura); apprezzati anche i concertati ed i momenti di quartetto. Ottimamente istruito da Claudio Fenoglio, un plauso specialissimo va al coro del Regio (molto opportunamente rimpolpato quanto a organico) che nel Faust ha un ruolo di assoluta centralità e che ancora una volta si è rivelato davvero un complesso di alto livello, in grado di affrontare qualsiasi partitura in qualsiasi lingua e con qualsiasi richiesta registica.
Ottimo anche l’apporto dei quasi venti ballerini (che belli quei gesti ‘meccanici’ a sottolineare la squadratura del ritmo di Walzer nel II atto) ed un ecumenico applauso a tutte le maestranze (sarte, attrezzisti, maestri di palcoscenico e via elencando) convocati con democratico entusiasmo da Poda a fine serata, a significare lo sforzo produttivo ‘corale’ di un’intera complessa ‘macchina’ umana. Un Faust insomma del quale a lungo il pubblico conserverà gradita e pregnante memoria. Repliche fino a domenica 14 giugno.
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