Come è giusto che sia in un festival di musica contemporanea, anche a Venezia si sono confrontati stili e linguaggi musicali diversi, che hanno suscitato vivaci dibattiti tra i pubblico di appassionati (e anche questo è un aspetto assolutamente positivo) e nette prese di posizione. Ma su un punto non si poteva che essere d’accordo: sulla qualità delle esecuzioni. Alcuni gruppi sono stati delle vere scoperte. Ad esempio lo Slowind Quintet, ensemble di fiati proveniente dalla Filarmonica Slovena, che ha eseguito con perizia, virtuosismo e musicalità i 10 Pezzi per quintetto di fiati di Ligeti; ha colto bene il carattere ludico e teatrale di Avgustin, dober je vin di Vinko Globokar, dove gli strumentisti a un certo punto si scambiavano gli strumenti; ha restituito il carattere narrativo, e un po’ rétro di Trenutki/Momenti di Nina Šenk, giovane compositrice slovena allieva di Matthias Pintscher; ha affrontato con energia il difficile nuovo pezzo di Pasquale Corrado, Ritorna ancora, sofisticato gioco di scomposizioni dei materiali sonori che generava un vortice caleidoscopico nella prima parte, ma poi purtroppo si sfilacciava e perdeva di mordente.
Applauditissimo anche il recital pianistico del Duo Dördüncü (formato dalle sorelle Ufuk e Bahar Dördüncü) che hanno eseguito Zeitgeist (Tableaux vivants) per due pianoforti amplificati di George Crumb, in sei movimenti timbricamente molto differenziati; Regards sur les traditions a quattro mani dello svizzero Dieter Ammann, pezzo che è ormai entrato nella letteratura contemporanea per pianoforte a quattro mani, e che attinge a modelli pianistici di Messiaen e di Ligeti, in una scrittura di grande fantasia, con zone velocissime e fluide, altre secche e nervose, giochi di cluster e di risonanze, fitte trame contrappuntistiche, accelerazioni e rallentamenti che creavano continui sfasamenti nella percezione; il nuovo pezzo per due pianoforti di Dai Fujikura, Cosmic Maps, fatto di brevi pagine che possono essere montate in un ordine a scelta, ma da eseguire senza soluzione di continuità: un lavoro davvero ben scritto e dal fascino siderale, capace di sfruttare tutte le risorse del pianoforte, con flussi di arpeggi che attraversavano tutta la tastiera, martellanti strutture accordali, effetti metallici e cristallini nel registro acuto, sezioni puntillistiche mai rigide, sempre animate da una straordinaria forza elastica.
Nel concerto dell’Ensemble Musikfabrik, magistralmente diretto da Johannes Schöllhorn (che sarebbe da scoprire anche come compositore, e finissimo orchestratore) si sono ascoltati due classici in stridente contrasto tra loro: l’esecuzione, molto fisica, di Grido di Lachenmann, svelava tutte le rugosità della materia sonora e la profonda tensione drammatica che la anima, mentre Naturale di Berio (su melodie siciliane) appariva poco più che un pezzo di un pezzo di gradevole ascolto.
Anche le due novità eseguite nello stesso concerto erano di due compositori dagli idiomi assai diversi, Fabio Nieder e Marcin Stańczyk, anche se entrambe capaci di creare atmosfere rapinose. Zerrissener Faden/Knäuel di Nieder – rielaborazione di Frage (4 Station) – era un lavoro pieno di fantasia (per viola, flauto basso, clarinetto basso, tuba e percussione) che intrecciava in maniera geniale elementi semplici, lenti frammenti di scale, lunghi suoni tenuti, pulsazioni e rintocchi di campane, in una dimensione funebre, ritualistica, piena di mistero. Blind Walk di Stańczyk (compositore polacco che è stato allievo di Zygmunt Krauze a Łódź e di Ivan Fedele all’Accademia di Santa Cecilia), scritto su commissione della Biennale, appariva invece più naïf, soprattutto per una certa ingenuità del concept, ma non privo di freschezza e di presa sul pubblico: il compositore ha immaginato di ricreare la fonosfera che si vive durante una passeggiata nel bosco. Per farlo, sono state distribuite al pubblico delle mascherine nere da viaggio, e i 15 strumentisti si aggiravano tra il pubblico bendato, producendo suoni elementari (soffi, rumori di fogli, di acqua, di strofinamenti di sacchi di platica), creando una spazializzazione tutta strumentale, e l’illusione di essere immersi in un mondo di natura.