PERCHÉ QUESTA RUBRICA
Inauguriamo con La metamorfosi di Silvia Colasanti la nuova rubrica intitolata “Una composizione, un compositore”, ideata da Simeone Pozzini, direttore del Corriere Musicale, curata e coordinata tra Paolo Carradori, Claudia Ferrari, e lo stesso Pozzini. Si tratta di una rubrica che ha la finalità di far conoscere la musica d’oggi con un focus specifico attraverso l’ascolto di una composizione e corredata da breve dialogo con il suo autore. Un’opera (qui intesa in senso astratto, sia essa strumentale o melodramma) non può essere naturalmente rappresentativa della poetica di un autore, semmai testimonianza di un momento della produzione. Ci auguriamo che questa piccola ricognizione possa essere d’aiuto al lettore per scoprire dall’interno la varietà e la vivacità della scena contemporanea.
«Ho risolto la sfida pensando ad un personaggio multiplo, polifonico, animato anche dalle sue diverse voci interiori che dialogano tra loro»
di Paolo Carradori
Esordio al femminile per Una composizione, un compositore. Silvia Colasanti, compositrice romana nata nel 1975, merita ampiamente questo spazio d’apertura in considerazione delle sue capacità alle quali ha fatto seguito una esposizione a livello nazionale ed internazionale negli ultimi anni. Nella sua Metamorfosi, opera della solitudine in tre parti su libretto di Pier’Alli (commissionata dal Maggio Musicale Fiorentino ed andata in scena nel 2012 con la direzione di Marco Angius), si evidenziano le sfaccettature, le tante interferenze di una scrittura dove nulla si muove per caso ma in una visone ampia dove le inquietudini contemporanee risultano sempre impregnate dalla consapevolezza di un passato letto e personalizzato come ricchezza, riflessione sull’oggi.
Di per sé l’idea di un lavoro, tra musica e teatro, sulla Metamorfosi di Kafka è avventurosa. Come ti sei coordinata con Pier’Alli, hai composto sugli stimoli della sua costruzione drammaturgica o hai lavorato a prescindere adattandoti allo sviluppo della messa in scena?
«L’idea di cimentarci con un grande classico della letteratura del Novecento come La metamorfosi di Kafka è stata decisamente affascinante e audace, ispirata anche al tema della Mitteleuropa, centrale nel programma artistico di Paolo Arcà allora Direttore del Maggio Musicale Fiorentino. Il rapporto con Pier’Alli è stato di grande stima e collaborazione. Non c’è stato mai un prevalere dell’uno sull’altro, ma un confronto continuo tra la sua visione drammaturgica, visiva e registica e la mia musicale. Ci siamo lasciati attraversare a vicenda e per me Pier Luigi è diventato un amico ma soprattutto un grande Maestro. Entrambi non volevamo rendere il protagonista in termini realistici – scelta che gli avrebbe dato un taglio didascalico, caricaturale – ma restituirlo sulla scena in modo trasfigurato».
Come può una partitura raccontarci i complessi sviluppi esistenziali del racconto kafkiano?
«Come compositrice avevo il problema di rendere musicalmente la condizione particolare del protagonista, un ibrido tra uomo e animale, una figura la cui voce appare alterata a seguito della sua trasformazione, una voce che i diversi altri personaggi non riescono a comprendere bene, ma che invece il pubblico deve capire. Ho risolto la sfida pensando ad un personaggio multiplo, polifonico, animato anche dalle sue diverse voci interiori che dialogano tra loro. Questo sicuramente ha condizionato la struttura del libretto, e da questo è derivata l’idea di mettere in scena un danzatore e fuori scena un attore e un coro. La sua stessa vita interiore è pensata come una polifonia e il coro come cassa di risonanza di un dramma interiore. L’opera segue la tripartizione dell’autore. Nella prima sezione – più onirica – la trasformazione di Gregorio non si vede in scena. Per tutta la prima parte il pubblico è per così dire, dietro la porta, come i familiari: solo quando la famiglia aprirà la porta, momento importante e abbagliante anche da un punto di vista musicale, il pubblico vedrà Gregorio divenuto insetto e lo stesso Gregorio si specchierà nello sguardo dei suoi familiari. C’è poi una seconda parte in cui la famiglia Samsa vive la metamorfosi di Gregorio come quotidianità, ed infine la terza parte, che inizia con toni grotteschi, con la presenza di tre ospiti in casa Samsa, ignari del dramma che la famiglia sta vivendo. Loro chiederanno alla sorella di Gregorio di suonare il violino, sarà proprio questo suono a far stupire il protagonista di emozionarsi ancora, provare ancora commozione per la Bellezza, Bellezza che risveglierà in lui un’umanità mai sopita».
Il rigore estetico della composizione aderisce all’andamento, ai ritmi della regìa ma apre anche, soprattutto nel finale, ad un possibile riscatto per Gregorio, alla sua solitudine. La sensazione è quella che la musica superi la forza della parola e la visionarietà dell’impianto scenografico.
«Nel finale, nel buio e nella solitudine, rispetto al canto divenuto inespressivo dei familiari (che nelle ultime battute parleranno solamente), la musica – attraverso l’orchestra – esprime l’umanità di Gregorio, l’unico essere umano vero, intessuto di amore senza reciprocità, di fronte ad una famiglia che ha subito la vera metamorfosi in animale. Gli altri personaggi hanno una vocalità che rispecchia il loro carattere. Il padre, molto austero, rigido. La sorella, implorante, colei che resta più al lungo vicino a Gregorio, ha una vocalità molto acuta e ricca di glissandi. La madre, comprensiva, ma anche ansiosa. Il procuratore, che rappresenta il rapporto con il Potere, con atteggiamenti molto subdoli e gravi. Gli ospiti hanno caratteristiche più grottesche e umoristiche, perché al di fuori del dramma. Il lavoro si presenta come una vera e propria opera lirica, genere non affatto morto, come sostengono molti…Naturalmente ogni opera rispecchia il suo tempo, dunque vive delle acquisizioni delle nostre radici, come del nostro passato più recente».