«Partendo da basi darwiniane, Lombroso si era convinto che alcune forme di criminalità potessero derivare da scoppi di istintività incontrollata, antropologicamente primordiale: in questo modo, diede vita alle primissime teorie del rapporto tra corpo e mente. Un anti-eroe»
di Claudia Ferrari
FABRIZIO DE ROSSI RE, classe 1960, è un compositore romano. Il suo stile compositivo è lontano dai canoni e non classificabile con etichette che lo vedrebbero sposare una determinata corrente di scrittura. È autore di opere di teatro musicale, ma anche di numerose opere radiofoniche; passa senza difficoltà dalla produzione cameristica a lavori sinfonico-corali, fino ad arrivare a musiche di scena. Il suo linguaggio è la risultante di diverse tradizioni, dal repertorio storico, alle sperimentazioni delle avanguardie; dalla spinta propulsiva della ricerca, all’evidente esigenza comunicativa. Cesare Lombroso o il corpo come principio morale (2001) è il frutto di quest’incessante ricerca di una sintassi più che mai personale della quale Mario Baroni scrisse: «La mia impressione è che la musica di De Rossi Re debba essere considerata fra quelle oneste: non vi vedo forzature o ambiguità ed è questa la ragione per la quale mi rifiuto di considerarla “neo-”. Mi sembra musica e basta».
Innanzi tutto, il protagonista dell’opera: non certo quello che si definirebbe un eroe contemporaneo, bensì un personaggio al di fuori dalla norma, spesso male interpretato.
Nell’opera, però, pare di scorgere l’aspetto umano di questo scienziato, antropologo e psichiatra, che qui sembra prima di tutto essere un uomo tremendamente appassionato alla sua ricerca.
«L’opera affronta un tema assai attuale, quello del rapporto tra ricerca scientifica e questione morale. Direi che Lombroso, scienziato ebreo e fondatore dell’antropologia criminale, sia addiruttura un anti-eroe. Il dato umano che mi ha interessato, e che si sovrappone alla figura dell’austero scienziato positivista, è le scelta di dedicarsi alle sedute spiritiche alla fine della sua carriera, a causa di violente incomprensioni con l’ambiente accademico scientifico. Nell’opera diventa addirittura una stella del varietà, un personaggio da esibire in un circo. Partendo da basi darwiniane, Lombroso si era convinto che alcune forme di criminalità potessero derivare da scoppi di istintività incontrollata, antropologicamente primordiale: in questo modo, diede vita alle primissime teorie del rapporto tra corpo e mente. Alla fine della sua vita – sia nella mia opera che nella vita reale – il cadavere di Lombroso, donato alla scienza dallo stesso scienziato, viene esaminato in autopsia e classificato, a causa di alcune anomalie fisiologiche tipicamente lombrosiane, come un pericoloso criminale. Un vortice grottesco di fallimento che mi aveva veramente conquistato…»

La forma: un’azione scenica, in cui gli strumentisti si trovano ad essere sul palcoscenico e diventano in breve oggetto delle analisi di Lombroso. Musica e trama non hanno così confini netti, i ruoli, attori e musicisti – ma anche, inevitabilmente, compositore e librettista – s’avvicinano fino quasi a fondersi. Com’è nata la collaborazione con Adriano Vianello e com’è stato impostato il lavoro?
La scelta di rendere i musicisti personaggi sottolinea come tutti noi potremmo, in qualche modo, essere oggetto d’indagine delle ricerche lombrosiane?
«Sul palcoscenico Lombroso viene prima evocato come in una seduta spiritica, attraverso il rapporto con la madre (donna deforme con molti occhi e molti seni) e quello con i musicisti-pazienti analizzati all’interno di un cupo laboratorio immaginato come fosse un incubo. Prende forma la figura dello scienziato che con maniacale precisione e dedizione, classifica inesorabilmente tutti i musicisti sul palco. I musicisti in oggetto siamo certamente noi: il pubblico si diverte durante queste analisi grottesche, perché si rivede come attraverso uno specchio. L’opera è nata con Adriano Vianello, è cresciuta lavorando quotidianamente insieme. Siamo partiti dal reperire i materiali più disparati: sulle analisi lombrosiane, sui reperti fotografici, sugli oggetti sopravvissuti e custoditi nei musei. Poi abbiamo inventato, come è necessario per poter realizzare una drammaturgia, molti personaggi (la madre deforme, alcuni condannati a morte per gravi delitti), ma anche dialoghi immaginari (come quello tra Lombroso e Hannibal Lecter, il serial killer del Silenzio degli innocenti, o quello tra Lombroso e la medium Eusapia Paladino). Tutte straordinarie invenzioni, scritte da Vianello con la sua caratteristica scrittura visionaria».
Questo viaggio immaginario tra gli esperimenti a tratti ossessivi dello scienziato, è sorretto dalla musica, che non è mai ingabbiata in un unico stile, e proprio per questo riesce ad incarnare il positivismo dello scienziato ma anche l’atmosfera surreale che si crea attorno agli avvenimenti. Echi di avanguardie novecentesche lasciano il posto a canzoni e a parti recitate. La fusione di stili così apparentemente lontani, non ha mai creato problemi di coerenza strutturale al lavoro, in fase di scrittura? Fino a che limite la libertà compositiva è stata (ed è, nel suo percorso personale oltre a quest’opera) una risorsa e non un rischio?
«La forma di un pezzo, o di un’opera, non è certo garantita dall’uniformità stilistica degli eventi musicali. Ritengo anzi il contrario. Gli stili possono essere molto diversi tra loro e non devono mai essere giustapposti, ma devono anzi convivere in un percorso naturale di interazione tra elementi diversi. In particolare, nel teatro musicale sono convinto che una successione non prevedibile degli eventi musicali contribuisca fortemente a mantenere desto e attento l’ascoltatore. Certo, bisogna saperlo fare! Non basta accostare semplicemente due cose di diversa natura, per esempio un foxtrot e un mottetto, per avere un cambio di direzione, ma l’uno deve essere musicalmente conseguenza dell’altro, in maniera sorprendente e naturale allo stesso tempo. Mahler docet…»