A Bologna il pianista ha interpretato pagine del compositore statunitense, residente in italia dagli anni Sessanta
di Giampiero Cane
Quello di Fabrizio Ottaviucci per AngelicA, il 19 gennaio nel teatro Sanleonardo è stato un concerto di rara qualità, cui è mancato, ma non a causa del musicista, quella pur minima partecipazione di pubblico da cui si ricava a volte l’incoraggiamento a proseguire. Ma nella sala, che non è grandissima, non c’erano nemmeno venti persone a seguire la piccola monografia pianistica di Alvin Curran allestita da Ottaviucci per l’occasione. Raramente finora la programmazione di AngelicA ha avuto così poco appeal come in questa circostanza.
La rassegna bolognese ha ormai più di vent’anni. Nacque figlia dell’azzardo, dell’avventura, nella convinzione che le stratificazioni del passato sarebbero servite poco a capire ciò di cui viveva la musica che stava rinnovando la scena. Non pensava a “musica da concerto”, ma a “concerti di musiche”. Per questo le scansie dei generi in AngelicA erano già saltate, quando ancora nei negozi di dischi trovavi i musicisti minimal inseriti nel jazz, che allora, anni Sessanta grossomodo, era l’unica musica ospitale nei confronti delle novità, il vero folklore che si rivolgeva a tutti, senza esami di ammissione per competenza.
Nel progetto originario, aperto a quelle che potevano sembrare le più curiose stranezze, la musica era raccolta e accumulata per anarchiche simpatie, senza gerarchie e ordini di grandezza, senza ipse dixit e canoni da osservare. I generi, che allora erano saltati, si sono però reinseriti subdolamente attraverso singoli “curatori”, consulenti di fiducia, diciamo, ciascuno con le sue ben individuabili predilezioni, ciascuno col suo orticello.
Questa mania dei curatori è ora diventata tale che un concerto in cui uno strumentista che mette in programma un autore, viene presentato come curatore del concerto. È ridicolo e se si trattasse di un instant composer o improvvisatore costui farebbe musica propria a cura di se stesso. Comunque queste sono cosucce che con un animo più schietto, non asservito ai cerimoniali unti e bisunti delle sale da concerto, si risolverebbero in un nonnulla.

Ottaviucci ha suonato musiche di Curran risalenti all’inizio degli anni Novanta: Inner Cities 1 e 2 del 1993-94, intervallati dalle musiche For Cornelius (Cardew) scritte dal musicista del Rhode Island (East Coast) tra il 1981 e il ’93. Curran è un musicista che vive a Roma da metà degli anni Sessanta e che con le proprie iniziative o partecipando a progetti altrui ha segnato profondamente la vita della musica marginale nel corso dell’ultimo cinquantennio. Bologna, anche se qui è nato il primo Dams, con un bell’investimento iniziale sulla musica, resta una città istupidita da un certo benessere che non sa applicarsi quasi a nulla, se non eccezionalmente (vedi a esempio Golinelli o Vacchi) e che risulta ostile a quanti magari cercano d’integrarsi, ma senza condividere la cultura pop-parrocchiale delle due torri, del Bologna F.C. che “è una fede”, del “blues a balus”, del mito di Dalla. Dunque, quel che a Milano o a Roma richiama un ampio seguito interessato e curioso, qui passa quasi inosservato, come capitò con Cecil Taylor, con il Juliard Quartet, con Frank Zappa, con Sir John Gielgud o con altri protagonisti del teatro degli anni Sessanta che, con l’eccezione di Leo De Berardinis, qui non attecchirono.
Fabrizio Ottaviucci è di propria formazione un artista alquanto schivo. Vive alquanto ritirato ad Assisi, ma con Nuova Consonanza, con la Rassegna di Musica Nuova di Macerata, la Fondazione Scelsi, con Traiettorie di Parma, Area Sismica ha avuto interessanti collaborazioni che gli hanno dato un minimo di popolarità. Ma col pubblico Bolognese, che se non gli dai Chopin, Mozart o Beethoven o un Bach, fosse anche alquanto pasticciato, non ti segue, evidentemente non c’è molto da fare. AngelicA aveva rotto con i riti riposanti della musica che si conosce anche se non la si è mai ascoltata, e aveva ottenuto anche buoni risultati. Poi s’è intestardita dietro a progetti più banali (il coinvolgimento occasionale con il Comunale, un’attività didattica per i bambini, cori di quartiere) e ha voluto aggiungere al nome la qualifica di “Centro di ricerca Musicale” ed è riuscita ad ottenere un sensibile calo delle presenze oltre a strani forni nei pochi concerti di qualità che riesce a promuovere.
Questo di Ottaviucci è stato uno dei concerti più appassionanti delle ultime stagioni. Riconosciuto ad Angelica di averlo programmato, il resto va tutto ad onore del pianista. Preparatissimo, meticoloso, attento a ricavare dal gesto il massimo del risultato, in For Cornelius, per esempio, ha messo in campo un’accumulazione di suono capace di trasformare il pianoforte in un organo. Merito anche di un puntualissimo e attento apporto dei pedali dello strumento. Mentre le parti di Inner Cities di evolvono con trasformazioni che conservano memoria stretta della ripetizione, appartengono ancora in parte all’esotismo asiatico, cioè oltre il west della musica degli States, For Cornelius è un’accumulazione enorme di suono: si espande producendo, sotto le mani forti di Ottaviucci, un’impressionante massa sonora.
Non ricordo d’avergli sentito suonare la Concord di Ives, ma credo che dalla sua applicazione non dovrebbe risultare meno che un grande poema sonoro, una visione come il Mare d’erba, le montagne rocciose, l’enormità dell’acqua del Niagara. Non siamo di fronte all’ermo colle, ma ad eventi in cui la natura umana può inserirsi soltanto col massimo del rigore cercando il riverbero dell’esterno nei segni silenziosi della pagina che si stanno trasformando in apocalittiche immagini.
Ecco! Nell’Inner Cities I c’è invece il piccolo, il minuto. Il ghirigoro ornamentale che insiste. È un gioco come da orologiai, uno studio sull’apparente identità di quel che solo di poco si trasforma. Un po’ una cineseria, le geometrie chiare di un pensiero ordinato che produce immagini ordinate anch’esse (l’ordo et connectio rerum di Spinoza che idem est ac ordo et connectio idearum). In esse è come se le idee promuovessero le cose, là, in For Cornelius, è l’opposto, le idee sono costrette ad adeguarsi, a contemplare l’abbacinante e il soverchio.
Che un pianoforte si faccia dimenticare per divenire un organo è effetto sorprendente, soprattutto perché Ottaviucci non vuole stupire, ma domina la prepotente materia che produce con serena lucidità. I suoi esiti sono privi di quella specie di satanismo che accompagnò a tratti l’organo nell’immaginario cinematografico, direi degli anni 40, con musiche che giravano attorno al Preludio e Fuga in re minore di Bach con James Mason che capitanava il sommergibile di Nemo (spero che la memoria non mi tradisca). Qui, con la lettura di Ottaviucci di queste musiche di Curran siamo più prossimi al territorio della filosofia, alle parole di Leopardi sul gigante vulcano e l’incanto dello sterminio che può portare, oppure allo sguardo del generale Patton sul territorio dove c’è stata la battaglia, ormai finita.
Caro Lettore, se apprezzi Il Corriere Musicale iscriviti al Circolo dei lettori, area premium dedicata ai più appassionati: sosterrai l’attività di questo sito permettendo anche la gratuità di articoli come questo. Sostieni le nuove realtà. Non riceviamo finanziamenti pubblici. Registrati