Otto appuntamenti in dicembre al Teatro Rossini, per una rassegna destinata a proseguire nel 2017. Spiccano gli spettacoli dedicati a Monteverdi, Händel, Scarlatti e Paisiello, con Rinaldo Alessandrini e il Concerto Italiano
di Francesco Lora foto © Giuseppe Melandri
È NATO UN NUOVO FESTIVAL: di musica antica, preclassica o – come più spesso si dice – barocca. Si chiama Purtimiro, tutto attaccato, dall’unione dei lemmi che avviano l’iconico e morboso duetto-passacaglia dell’Incoronazione di Poppea. La fondazione è avvenuta in seno alla città romagnola di Lugo: essa possiede il Teatro Rossini, il più antico conservato nella regione, gioiellino bibienesco da 450 posti; ed è amministrata da una giunta (di sinistra) che in sprezzante controtendenza ha moltiplicato lo stanziamento alla cultura. L’atto, esemplare, è innanzitutto un rilancio del ruolo del Teatro Rossini e della scena lughese sul territorio nazionale. Abbandonato, restaurato a regola d’arte e infine riaperto nel 1986, fino a quindici anni fa il Rossini si era imposto nel recupero di titoli d’opera sempre citati in bibliografia e però mai ascoltati, o in quello di partiture minori utili tuttavia a esemplificare l’evoluzione del linguaggio. In seguito, la sostituzione della breve stagione lirica (inverno e primavera) con un Lugo Opera Festival (primavera soltanto) ha via via allargato il discorso intorno al melodramma con concerti e spettacoli sperimentali, ma ha nel contempo indebolito il primato della città romagnola – le coproduzioni col vicino Teatro Comunale di Bologna, bazzicato da un pubblico in gran parte identico, hanno spostato l’attenzione verso il capoluogo – e ha paradossalmente spento lo spettacolo operistico in senso puro.
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Nel trentennale della riapertura del Rossini, il festival Purtimiro rappresenta dunque la rinascita di un’istituzione e l’impegno a una missione. Lo hanno testimoniato gli otto appuntamenti della sua prima edizione, tesi a tappe serrate dal 3 al 30 dicembre 2016. Alcuni punti deboli, rilevati in amicizia: la réclame è sollecita e calcolata, ma a ridosso delle feste natalizie i biglietti venduti sono pochi; di notte la città non è servita da mezzi pubblici, ma gli spettacoli sono quasi tutti serali; gli uffici del teatro lavorano squisitamente, ma il personale di sala (maschile) tratta il pubblico con severità poliziesca; il referenziato Rinaldo Alessandrini tiene la direzione artistica, ma monopolizza anche il cartellone col proprio ensemble strumentale Concerto Italiano; il programma dettagliato dei concerti è annunciato solo la sera stessa e le opere rappresentate non costituiscono novità assolute; il palcoscenico del teatro non è attrezzato di camera acustica, così che timbri e volumi finiscono attratti in alto, come si trattasse di un camino, prima di varcare il boccascena e giungere intatti al pubblico. Ma già ci si è rimboccati le maniche per il 2017 (spettacoli previsti in settembre-ottobre), gli errori non si ripeteranno e resta ora da dire su quanto fatto, ascoltato e visto: questo Purtimiro, con tutto quanto si possa e debba eccepire, è nel suo complesso un punto forte da tutelare a ogni costo.
DAL MADRIGALE ALL’OPERA: ANTOLOGIA MONTEVERDIANA
Quest’anno, già 2017, si celebra il 450o anniversario della nascita di Monteverdi. In Italia si farà poco o nulla, con la presumibile eccezione del festival cremonese intitolato al divino Claudio. A Lugo, 3 dicembre, è stata però formulata una preziosa anteprima: un concerto imperniato sul Monteverdi madrigalista e operista, lungo il quale si apprezza mezzo secolo del suo catalogo. In ordine cronologico, si passa da un madrigale nel Libro secondo (1590: «Ecco mormorar l’onde») a uno nel Libro terzo (1592: «Vivrò fra i miei tormenti e le mie cure»), dagli Scherzi musicali (1607: «Quando l’alba in oriente») all’Orfeo (1607-09: una sinfonia nell’atto III), da un madrigale nel Libro sesto (1614: «A dio, Florida bella, il cor piagato») a uno nel Concerto (Settimo libro, 1619: «Al lume delle stelle»), dai alcuni Madrigali guerrieri et amorosi (1638: il Combattimento di Tancredi e Clorinda, «Or che ’l ciel e la terra e ’l vento tace» e il Lamento della ninfa) ad assaggi dal Ritorno d’Ulisse in patria (1641: una sinfonia nell’atto I) e dall’Incoronazione di Poppea (1642: l’inevitabile «Pur ti miro, – Pur ti godo», benché ascrivibile ad altro autore). La tenuta maggiore della serata è proprio nel programma, che esibisce l’evoluzione del linguaggio monteverdiano, dalla polifonia a cinque voci alla monodia accompagnata, ma è attraversato dal fil rouge delle suggestioni notturne, contesto di sfoghi amorosi o erotici e di battaglie armate o interiori. Né va taciuto che diverse tra le composizioni elencate sono facilmente accessibili in registrazione, ma rimangono nel contempo di rarissimo ascolto dal vivo: un privilegio, dunque, ritrovarle.
Timida risulta però l’esecuzione da parte del Concerto Italiano, messo in difficoltà da problemi acustici non ancora addomesticati e qui formato da interpreti non di primissima scelta o non appieno preparati e motivati. Lo si avverte nell’esitante fraseggio e nel pallore timbrico sia delle voci sia degli strumenti, benché Alessandrini non manchi di spronarli dal clavicembalo. I momenti più felici si riconoscono nelle sinfonie e nel duetto dall’Incoronazione di Poppea, dove le voci sopranili di Monica Piccinini e Anna Simboli si ritrovano spontaneamente unite nelle intenzioni ma opportunamente differenziate nel materiale. A rischio procedono invece i madrigali a quattro e cinque voci, poiché i cantanti coinvolti hanno pratica più della monodia alla moderna che della polifonia all’antica. Sfocato risulta il Combattimento stesso, per via di un’insoddisfacente distribuzione delle parti: come Clorinda, la Piccinini non ha da temere, ma gli interventi di Tancredi battono su una tessitura troppo elevata per il basso Matteo Bellotto; l’enciclopedia di affetti assegnata al Testo, poi, trova in Raffaele Giordani un interprete oltremodo coinvolto, ma più incline al birignao iperrealistico che al dotto discernimento dell’oratore. Qual è il termine di paragone che affila la penna del critico? Alessandrini e il Concerto Italiano stessi, che proprio al Rossini di Lugo, nel 2001, diedero una lettura indimenticabile del Combattimento e di altre pagine monteverdiane; ma la loro musa, quella volta, era la regina della parola in seno al canto: Anna Caterina Antonacci.
DA ARIOSTO A HÄNDEL, CON INVERNIZZI E PRINA
Un secondo appuntamento dedicato all’arte violinistica italiana tra Sei e Settecento (Alessandrini e Concerto Italiano; 7 dicembre), un terzo dedicato alla cultura inglese da Shakespeare a Purcell (Ottavio Dantone e Accademia Bizantina; 11 dicembre), un quarto dedicato alla diffusione del pianoforte in Europa (Olivier Cavé; 15 dicembre). Il quinto appuntamento di Purtimiro si è di nuovo concentrato sul rapporto letteratura/musica, sul repertorio vocale e su un anniversario importante; il 17 dicembre sono così tornati Alessandrini e il Concerto Italiano, raggiunti dal soprano Roberta Invernizzi e dal contralto Sonia Prina, per una svelta selezione dalle opere di Georg Friedrich Händel ispirate a episodi dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto: poema epico che nel 2016 ha, a sua volta, compiuto cinquecento primavere.
Spiace ascoltare il Concerto Italiano con – questioni di budget – organico ridotto a parti reali, ossia con un solo esecutore per ciascuna parte strumentale e con una lieve abbondanza nel basso continuo: undici musicisti in tutto, quando l’epoca e lo stile di Händel imporrebbero senza scampo la densità di sezioni intere. Pesi, timbri e fraseggi ne escono avviliti, nonché la stessa intonazione, soprattutto nei passi con violini unisoni (guai ad aggiogare due singoli con uguale compito: i difetti dell’uno saranno subito non coperti, bensì sottolineati dall’altro).
Piace invece riascoltare – e a maggior ragione insieme, in anni di loro diminuita presenza italiana – l’Invernizzi e la Prina. Sofisticata stilista l’una, torva caratterista l’altra, fanno strame di ogni concorrenza non madrelingua con la naturalezza o la pregnanza del porgere e con la sfrenata fantasia delle variazioni nei da capo (dote rara: la strumentazione händeliana, con la sua fitta realizzazione armonica, limita il libero movimento delle linee vocali). Insieme con le sinfonie dalle rispettive opere, formavano il programma ben note arie e duetti dall’Orlando («Fammi combattere», «Se mi rivolgo al prato» e «Finché prendi ancor il sangue»), dall’Ariodante («Volate amori», «Dover, giustizia, amor» e «Bramo aver mille vite») e dall’Alcina («Mi lusinga il dolce affetto» e «Ah! Ruggiero crudel, tu non mi amasti … Ombre pallide, lo so, mi udite»), sempre congeniali all’Invernizzi – le parti di Angelica, Ginevra e Alcina sono tutte sopranili – ma con un trabocchetto teso alla Prina: se le parti di Orlando e Polinesso sono infatti scritte in comoda tessitura contraltile, quelle di Ariodante e Ruggiero gravitano invece su un registro differente e più elevato.
SCARLATTI PADRE: PASTORI FORTUNATI
Dove Purtimiro assesta un colpo da maestro è nel più importante investimento dell’anno: tre recite degli Equivoci nel sembiante di Alessandro Scarlatti (21, 23 e 27 dicembre). Quest’operina di genere pastorale costituì l’esordio operistico del compositore (1679), nel teatro romano della famiglia Contini e su un libretto di Pietro Filippo Bernini (figlio di Gian Lorenzo); nel pubblico v’era anche l’estasiata regina Cristina di Svezia, e l’applaudito lavoro fu subito ripreso a Bologna (rielaborato nelle musiche – ironia della sorte – da Giacomo Antonio Perti, altrettanto giovane e in séguito il più temuto tra i rivali di Scarlatti). La partitura non è una novità assoluta in età contemporanea: ne è disponibile un’edizione e nel 2012 è stata, per esempio, eseguita al Festival Opera Barga.
Benvenuto è però l’inedito allestimento lughese, solido anche là dove l’interprete è maliziosamente atteso al varco. Si allude innanzitutto alla lettura musicale di Alessandrini, pronta al serrato mutare dei tempi della parola, dei metri della musica e della retorica degli affetti. Anche in questo caso, il ricorso alle parti reali anziché al concerto grosso è un arbitrio insostenibile sulla carta: eppure il Concerto Italiano spiazza qui il musicologo con una padronanza tecnica, una vividezza di colori e un’abilità evocativa dopo le quali non si saprebbe cosa chiedere in più. Azzeccato dalla prima all’ultima scena è anche lo spettacolo con regìa e costumi di Jacopo Spirei, scene di Cristiana Aureggi e luci di Giuseppe Di Iorio. Virtù della massima economia: una scatola bianca che circoscrive lo spazio per l’azione, una piccola selva di spoglie viti d’uva dipinte di blu, il giallo dei fari luminosi e i rossi abiti delle pastorelle; testo e gesti sono articolati con disinvolto realismo contemporaneo, ma nessuno si disgiunge dalle intenzioni e dalle prescrizioni della musica e delle sue strutture. I meriti del concertatore e del regista sono dunque condivisi alla pari con una compagnia di canto preparata, entusiasta, ben differenziata nei suoi elementi e altrettanto ben calata nei quattro personaggi. Alena Dantcheva e Monica Piccinini, soprani, danno luogo rispettivamente a una Clori sia altera sia tenera e a una Lisetta di scoppiettante vivacità. Raffaele Giordani e Valerio Contaldo, tenori, vedono il primo, come Eurillo, immacolato nel canto ed esuberante nella recitazione, e il secondo, come Armindo, finemente sarcastico nel riprodurre le movenze del fratello perduto e ritrovato.
PIETRO SPAGNOLI, O DELLA VIS COMICA
Il recital di canto è un genere di spettacolo in crisi: non è quasi più coltivato in stagioni apposite e viene raramente proposto in rassegne miste; si va così perdendo l’arte della scelta del programma e, tramite esso, quella della trasfigurazione dell’interprete. Il pregio e la menda si sono trovate in parti eque nel penultimo appuntamento di Purtimiro (28 dicembre). Pianista era Giulio Zappa, accompagnatore scaltrito come non altri; e al centro stava Pietro Spagnoli, il baritono che allo scorso Rossini Opera Festival di Pesaro ha impressionato per forza di caratterizzazione del personaggio di Prosdocimo nel Turco in Italia, e che negli stessi giorni ha anche concesso – incredibile a dirsi, considerata la classe 1964 e l’insigne carriera – il suo primo recital di canto in assoluto.
Il concerto lughese ha perlopiù riproposto quell’eclettico programma. V’è stata la scontatezza delle arie antiche raccolte da Alessandro Parisotti in un’epoca musicale che non esiste più, ossia «Oh del mio dolce ardor bramato oggetto» da Paride ed Elena di Christoph Willibald Gluck (un brano concepito per il castrato Giuseppe Millico: altro timbro, altro registro) e «Caro mio ben» attribuito ora a Giuseppe Giordani, ora a Tommaso Giordani, ora a un Giuseppe Tommaso Giordani mai esistito. V’è stata la ricercata proposta di tre inusitati brani d’opera dell’età classica, ossia «Se di fare l’impresario» dalla metateatrale Opera seria di Florian Leopold Gassmann, «Mille lampi di accese faville» dall’Orlando paladino di Joseph Haydn e «Nell’impero di Cupido» dal Falstaff di Antonio Salieri. V’è stata infine la riverenza a Mozart e Rossini, da una parte con «Hai già vinta la causa! … Vedrò mentr’io sospiro» e «Aprite un po’ quegli occhi» dalle Nozze di Figaro e con «Madamina, il catalogo è questo» dal Don Giovanni, dall’altra con l’aria da camera L’ultimo ricordo e con «Come un’ape ne’ giorni d’aprile» e «Sia qualunque delle figlie» dalla Cenerentola.
Soprattutto nei brani di genere buffo s’è imposto il magistero di Spagnoli, mattatore non del recital come genere, bensì della caratterizzazione di un personaggio teatrale, dell’evocazione di una situazione drammatica, dello scavo della parola benché lasciata supporto intatto al canto, nonché della sana e franca tecnica all’italiana che tutto sa veicolare con purezza di comunicativa e senza baloccarsi in calligrafismi. Impegnativi e comicamente correlati entrambi gli encore concessi a fine serata, quando il cantante ha anche ammesso l’indisposizione fin lì nobilmente nascosta: ecco uscire dalle quinte «Largo al factotum» dal Barbiere di Siviglia, ed ecco poi distillato – dopo Salieri – il monologo conclusivo dell’atto I dal più noto Falstaff di Giuseppe Verdi.
NON PERGOLESI MA PAISIELLO: LO STRAPOTERE DELLA SERVA
All’ultimo appuntamento del festival, 30 dicembre, il Teatro Rossini è stipato di pubblico: va in scena la Serva padrona, non già nella veste musicale pergolesiana bensì in quella, successiva di alcuni decenni, composta da Giovanni Paisiello per la corte di Pietroburgo e oggi ripresa per i duecento anni della morte del compositore. Un sotterfugio utile al botteghino: nelle parti muti dei servitori la locandina annuncia Tullio Solenghi e un noto personaggio politico tenuto segreto fino all’apertura del sipario; il duo di mimi è destinato a scintillare e costruisce di fatto la regìa, tra il talento comico del noto attore e il riconoscimento, nei secondi panni, di Davide Ranalli, sindaco in carica di Lugo e primo sostenitore di Purtimiro. Ancora una volta la concertazione musicale è assunta dal solerte Alessandrini, e ancora una volta il suo Concerto Italiano agisce con squilibrio: due soli violini e una viola benché già, nella corposa orchestrazione di tardo Settecento, figurino sonore coppie di legni e ottoni.
Il viepiù raro mestiere di basso buffo si incarna in Luciano Di Pasquale come bofonchiante Uberto. Ma eccezionale è al suo fianco, e su tutti, la prova di Silvia Frigato come Serpina: giganteggia con dispotico acume nel calcare la scena, a dispetto della figura minuta come una formica; snocciola ogni nota con palese coscienza tecnica, fino ai liquidissimi passi di coloratura che qui e là si presentano inattesi e insidiosi; soprattutto, mostra in questa occasione come mai prima la lezione di stile, inconfondibile, appresa da Monica Bacelli attraverso la condivisione del palcoscenico: dizione di compiaciuta chiarezza, parola modellata da peculiare accento, formidabile compresenza, in sovrapposizione, del personaggio animato con realistica vividezza, del metodo declamatorio per una limpida enunciazione e dell’attrice ironica e divertita nell’arbitrare intenti e risorse; ecco l’arte della primadonna buffa.
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