di Luca Chierici foto © Brescia & Amisano
Così come la cotoletta alla milanese, quella vera, non ha nulla a che fare con la famosa orecchia d’elefante che si gusta in alcuni grandi ristoranti della capitale austriaca, questa Fledermaus, approdata finalmente alla Scala dopo un ingiusto oblìo durato quasi centocinquant’anni, non ha molti elementi da spartire con il frizzante eppure nostalgico capolavoro straussiano che si sarebbe potuto importare sfruttando qualche regìa ed esecuzione tradizionale, per non parlare del magnifico spettacolo che viene riproposto dal Marionettentheather di Salisburgo. Non è questione di lacrimevoli ricordi del passato, ma ben poco dello spirito dell’operetta (non opera, almeno così è scritto sulla partitura) traspare da questa trasposizione voluta da Cornelius Obonia e dalla co-regista Carolin Pienkos, pur legittima e a volte divertente e spigliata. Di un certo gusto le scene e i costumi di Heike Scheele: uno sfondo comune ai tre atti, fatto di montagne innevate e di cieli stellati, così come lo si può godere dal finestrone di qualsiasi ricco chalet di montagna, accompagna la vicenda, ambientata appunto nella moderna magione dei von Eisenstein (carina la trovata del roomba che aiuta la serva Adele nelle faccende domestiche, mentre dell’uso dei cellulari in queste trasposizioni moderne non se ne può proprio più), nella sala dei ricevimenti piuttosto pacchiana della Orlofskaya (si, al femminile perché così vuole il regista, aggiungendo un coté saffico alla già invischiata vicenda del libretto originale) e nella prigione dove la vicenda si “scioglie”.
Bravi i cantanti-attori, che tra le altre cose si devono dividere tra periodi recitati in tedesco e in italiano, cosa che rende assai faticosa la lettura del testo sui display scaligeri: perfetti Markus Werba (Dr. Falke che assomiglia sempre più a Piero Angela) nel ruolo del deus ex machina, Eva Mei, grintosa Rosalinde, e Daniela Fally, spigliatissima cameriera come si usa fin dai tempi di Serpina e di Despinetta. Più compassato il Gabriel di Peter Sonn e un po’ troppo sopra le righe la Orlofskaya di Elena Maximova, mentre più che apprezzabile era l’Alfred di Giorgio Berrugi, che passava tra l’altro da una citazione operistica (italiana, beninteso, da Verdi a Puccini, Giordano ecc.) all’altra con grande disinvoltura. Fuori ruolo il Frosch di Paolo Rossi, che da brillo assomiglia in maniera impressionante a Lino Toffolo (chi se lo ricorda ?) e che procede per battute decisamente banali.
Alcuni errori nella trasposizione italiana dei dialoghi: il Rolex tanto citato al polso di Gabriel non può essere tale perché la famosa casa svizzera non ha mai prodotto un orologio a svegliarino. Non particolarmente memorabile il balletto di Heinz Spoerli, che già durante l’Ouverture mette in scena tanti giovani Batman svolazzanti. Cornelius Meister ha diretto senza grande ispirazione una partitura che nasconde mille raffinatezze (subito raccolte da tanti grandi direttori del passato) e che ha dato pane e note a una infinita schiera di trascrittori nel corso del tempo. Serata di successo, non grandissimo, perché la Fledermaus è la Fledermaus e per quanto rivoltato e trasformato conserva sempre un suo valore indiscutibile e muove il pubblico all’applauso, anche nel finale perché, si sa, «tutto nel mondo è burla». Per la cronaca, il responsabile dell’ufficio stampa Paolo Besana ha in apertura invitato il pubblico presente a un minuto di silenzio per le recenti vittime degli incidenti sul lavoro dovuti a insufficienti norme di sicurezza.
Non sono mai stato un amante dell’operetta ma ci sono almeno due eccezioni: Le contes de Hoffman” e “Die Fledermaus”. E bene ha fatto la Scala a riproporre per la prima volta (a Vienna viene riproposta ogni fine d’anno) l’operetta di Johann Strauss che sarebbe godibile sotto ogni profilo. Sarebbe…
se il regista non avesse trasformato un’operetta “fin de siècle” in una rappresentazione da baraccone, una sorta di avanspettacolo kitsch di periferia che la Scala di certo non merita. C’è tutto il repertorio più scadente da parte del regista che ammicca alla sala stile Schikaneder da circo: totale trasformazione del testo con inserzioni fuori luogo, balletti dei protagonisti (ad esempio nel primo atto), balletti in generale (il corpo di ballo è l’unico che si salva), il principe che diventa principessa, arie d’opera seria, esibizione di acrobati, battute di qualità infima e addirittura uno show di Paolo Rossi che con l’operetta c’entra come i cavoli a merenda. Fare una recensione seria di fronte a questo spettacolo sarebbe come sparare sulla croce rossa: praticamente non c’è nulla che si salvi. Solo Adele – die Zofe – (Daniela Fally) offre una prestazione di valore con una spiritosa presenza scenica e una bella voce.”Il resto è noia….”. Pubblico ovviamente soddisfatto (!!!!!) ohimé.