di Francesco Lora
L’oratorio Elias di Mendelssohn, per Daniele Gatti, è una partitura del cuore come Die Meistersinger von Nürnberg di Wagner, Falstaff di Verdi, Pelléas et Mélisande di Debussy o The Rake’s Progress di Stravinskij.
La si ascolta sempre con gli occhi umidi di commozione, dalla prima all’ultima nota, per quel capolavoro che è di drammaturgia, conduzione delle parti e strumentazione; di teologia musicale, verrebbe da scrivere; se poi a dirigerla è Gatti, v’è garanzia di una lettura desiderata fino al midollo, meditata con la vita, oggetto di pellegrinaggio. All’Accademia nazionale di Santa Cecilia, nella sala grande del Parco della Musica, il 9, il 10 e l’11 febbraio, l’incontro tra la composizione somma e il devoto concertatore è stato officiato ancora una volta. Orchestra e coro romani hanno recato in dote il loro recente studio delle musiche, avvenuto nel 2021 per un’esecuzione in solo live streaming diretta da Antonio Pappano: rimodellati da Gatti, gli hanno consegnato con sontuosità timbrica e fraseggio assertivo quel di lui tipico – e qui più che mai espresso – suono nero, opaco, franco, sfumato, compatto, dalla massa terribilmente corrusca e impenetrabile, tirato su tempi poderosamente larghi, dal passo narrativo titanico eppure struggente. Da parte di chi sul podio predilige Bruckner e Brahms, Mahler e Strauss, è questo un modo istintivo, obsolescente nello stile e tuttavia ancora fascinoso, di ricongiungersi alla tradizione severamente luterana di Bach o sfarzosamente nazionale di Händel.
L’italica, sericea cantabilità dei professori ceciliani e la prestanza tecnica dei relativi artisti del coro figurano come un valore aggiunto, difficilmente ripetibile con i complessi di Berlino, Londra o Vienna. A fare la parte del tallone d’Achille è restato allora il quartetto dei solisti di canto. Da esso va preventivamente escluso il baritono Jordan Shanahan, ancora poco noto in Italia a dispetto di un’insigne carriera internazionale, incernierata su prime parti verdiane, wagneriane, pucciniane e straussiane: nulla egli ha fatto mancare tra risonanza e smalto, forza assertiva e dovizia di mezzetinte. Quanto al soprano Marlis Petersen, al mezzosoprano Michèle Losier e al tenore Bernard Richter, il dubbio che li riassume tutti – al di là della quotazione che i predetti godono sul mercato delle voci, soggetta a logiche aliene dal melomane e dal musicologo – sta nella scuola che li affilia: germanica, novecentesca e accademica, tentata da filologismi pre-romantici, caratterizzata da un tendente anonimato timbrico, una certa fissità d’emissione, un costante senso del limite e un eccessivo pudore retorico. Obbediscono così idealmente al disegno di Gatti, dove i divi non troverebbero cittadinanza: ma se al loro posto ci fossero stati Lisette Oropesa, Joyce DiDonato e Michael Spyres, sarebbe più presto tornato alla mente che Mendelssohn pensava alla luminosa vocalità teatrale di Jenny Lind, la prima Amalia nei Masnadieri di Verdi.