di Luca Chierici
La presenza di Seong-Jin Cho, pianista sud coreano vincitore del primo premio al Concorso Chopin di Varsavia del 2015, si era già segnalata in termini più che positivi nel 2017, per la Società dei Concerti di Milano.
Le aspettative e l’esame, nel frattempo, della sua produzione discografica non hanno portato a ripensamenti. Anzi, con il recital dell’altra sera il giovane trentenne ha dimostrato una ulteriore crescita che ha precisato i contorni di scelte stilistiche ancor più interessanti, rese particolarmente felici attraverso una serata di grazia di quelle che, quando è il caso, trasformano l’andamento di un recital in un evento particolarmente importante.
Di Cho si era già sottolineata una sommatoria di caratteristiche (tecnica completa, bellezza di suono, fraseggio perfettamente in linea con i risultati di una tradizione di altissimo livello, controllo totale del mezzo pianistico, tenuta concertistica davvero esemplare) che non lasciava dubbio alcuno sulle qualità straordinarie di questo artista. Ciò che forse mancava negli scorsi anni era la definizione di uno stato di ricerca che avrebbe portato il pianista a traghettare la propria esperienza del Concorso in un percorso personale fatto di scelte di repertorio e di accostamenti che possono indicare nuove chiavi di lettura.
In tal senso, se l’impaginato del recital dell’altra sera era più che ovviamente dedicato al genere della variazione, ciò che più ha colpito l’ascoltatore attento era la perfetta compenetrazione tra le scelte stilistiche e puramente pianistiche dovute in parte al riassunto di una tradizione di altissimo livello e il personale coinvolgimento emotivo del solista, immerso in toto nei meandri di un programma di grande impegno. Non si vuole qui sminuire quelle che sono le componenti personali di approccio alla letteratura classica, ma va precisato che un risultato di eccellenza simile a quello raggiunto da Cho non potrebbe avere luogo se non anche attraverso una conoscenza minuziosa del lavoro di tanti pianisti che lo hanno preceduto nel lungo e faticoso cammino interpretativo. In particolare, la lettura delle immense Variazioni su un tema di Haendel di Brahms e ancor più quella degli Studi sinfonici op. 13 di Schumann (comprese ovviamente le “variazioni postume”) mostrava una meravigliosa comprensione di questi testi magnifici, e movimentava un percorso non facile di ripetizione di ogni ritornello differenziando il carattere di ogni variazione, ossia mostrandone diversi aspetti pur nella esposizione simmetrica voluta dallo spartito. In questo, Cho ha dato via libera alla propria fantasia, evitando qualsiasi ombra di sterile accademismo, portando con intelligenza alla luce nuovi particolari pur rispettando il tradizionale disegno architettonico dell’insieme. Le due opere fondamentali che costituivano il programma erano precedute dalla quinta Suite di Haendel (quella che contiene a propria volta una breve serie di variazioni sul tema del “fabbro armonioso”, elemento molto popolare nei gusti di un tempo), da una selezione dai Klavierstücke op.76 di Brahms, guarda caso la stessa operata da Walter Gieseking in un suo recital dei primi anni ’50 a Seattle e dalle difficili e imponenti simmetrie della Chaconne, opera della compositrice russa Sofia Gubaidulina, un poco datata (1962) nella sua scrittura massiccia. E a un altro grande pianista del passato, Wilhelm Kempff, Cho si è rivolto nell’unico bis, la trascrizione di un Minuetto dello stesso Haendel che aveva aperto la serata.