di Gianluigi Mattietti
Opera del 1735, Il Tamerlano di Vivaldi nacque come un “pasticcio” – realizzato su un soggetto assai noto all’epoca e su un libretto ampiamente collaudato di Agostino Piovene (messo in musica più di quaranta volte) – nel quale Vivaldi mescolò, secondo la prassi, brani originali e materiali presi in prestito da altri compositori.
Il manoscritto, autografo ma incompleto, ritrovato nella Biblioteca Nazionale di Torino, è stato ricostruito da Ottavio Dantone e Bernardo Ticci, con la riscrittura dei recitativi e l’innesto delle cinque arie mancanti (su 21 complessive), soprattutto per i personaggi di Tamerlano e Irene, prese da lavori dello stesso Vivaldi o di altri compositori come Giacomelli e Hasse. In questa veste, l’opera di Vivaldi è andata in scena al Teatro municipale di Piacenza, in una coproduzione con i teatri di Ravenna, Reggio Emilia, Modena e Lucca. Un’opera piena di passioni e povera di azione, che Dantone aveva già inciso tre anni fa con la sua Accademia Bizantina, nel volume 65 della Vivaldi Edition (Naïve) e della quale ha offerto una lettura trascinante e nitida, con un suono ricco di dettagli, mai monotona, anche nelle formule basate su reiterazioni e progressioni, perché sempre vivificata da un continuo gioco di scarti dinamici, di accenti, di crescendo e decrescendo, oltre che dalla varietà degli elementi stilistici e dei materiali spuri presenti nella partitura. Il direttore ha anche curato con grande finezza i recitativi, sottolineandone l’eloquio drammatico, i silenzi, le dissonanze, riuscendo così a dare un incalzante ritmo teatrale anche a tutti i dialoghi. Eccellente la compagnia di canto, con alcuni solisti che già avevano partecipato all’incisione Naïve, e tutti vocalmente ben calati nei rispettivi personaggi. Il controtenore Filippo Mineccia disegnava un Tamerlano contraddittorio, insieme arrogante e permaloso, sanguinario e fragile, con un canto imperioso ma pronto alle agilità, pieno di energia ma anche di sfumature e di inflessioni espressive. Delphine Galou interpretava la parte di Asteria con un’emissione morbida, cogliendo la dimensione più intima e profonda del suo personaggio, con grande musicalità anche se poca voce. Il baritono Bruno Taddia era un Bajazet nobile e fiero, solo un po’ debole nel registro grave. Una vera gara di bravura tra gli altri tre interpreti: il sopranista Federico Fiorio, un Andronico fluido nell’emissione e nelle colorature, eroe innamorato dalla voce limpida, piena di emozione, con un culmine nell’aria «Spesso tra vaghe rose»; Shakèd Bar virtuosa ed estrosa nei panni di Irene, duttile nel passare dal tono focoso dell’aria «Qual guerriero in campo armato» a quello dolente di «Sposa son disprezzata», a quello ammiccante di «Son tortorella»; Giuseppina Bridelli, un Idaspe pirotecnico, di grande presenza vocale e scenica.
Lasciava invece assai perplessi il nuovo allestimento di Stefano Monti, che firmava regia, scene e costumi, e che mirava a traslare la “meraviglia” barocca in una dimensione fantasy e dark, mescolando teatro di figura e danza, regia e coreografia. I sei personaggi erano infatti accompagnati da altrettanti alter ego danzanti (della compagnia DaCru), con analoghe fattezze, trucchi e costumi, come creature ibride che avrebbero dovuto amplificare gli stati d’animo dei protagonisti attraverso movenze di breakdance. L’idea della fusione tra barocco e hip-hop non era nuova, e sembrava ricalcare l’intuizione delle Indes galantes di Clément Cogitore, spettacolo messo in scena all’Opéra Bastille nel 2019 con la compagnia “di strada” Rualité (nata nella banlieu di Parigi da immigrati sub-sahariani) della coreografa Bintou Dembélé. Ma se l’operazione di Cogitore aveva funzionato assai bene, anche perché si innestava su un’opéra-ballet (concepita oltretutto come una sorta di opera etnografica, un giro nel mondo in quattro tappe attraverso culture diverse), e i danzatori intervenivano in forma assai varie, rimanendo spesso sullo sfondo, e producendosi in grandi scene di gruppo solo nelle parti più ritmate, come nella celebre Danse du Grand Calumet de la Paix (nel quarto atto, intitolato Les Sauvages), non altrettanto si poteva dire di quella di Monti: i sei danzatori si muovevano infatti senza interruzione, spasmodicamente, sempre a ridosso dei cantanti, come delle ombre, accompagnando arie e recitativi, quasi a voler colmare un vuoto, «produrre teatralità» compensando l’«inazione» dell’opera. Ma il risultato era che tutto quel movimento alla lunga dava il mal di mare, risultava superfluo, talvolta didascalico (nell’aria «Svena, uccidi, abbatti, atterra» tutti si lasciavano cadere sulla parola «atterra»), spesso fastidioso. Tutto il resto dell’allestimento mirava a creare una dimensione straniante e distopica, ispirata a immaginario un po’ fumettistico, sospeso tra la paleo-fantascienza e le serie tv fantasy, tra Flash Gordon e Trono di spade: il trucco “punk” con banda nera sugli occhi, i costumi “dark” pensati come rivisitazioni dei costumi barocchi, i troni gotici, le proiezioni in graphic design dall’effetto “screensaver” (con stormi di uccelli per l’aria «sposa son disprezzata», o un rotolare di teschi per l’aria «Veder parmi, or che nel fondo»), le superfici grigie, le luci livide e giallastre, la gigantesca altalena al centro della scena che fungeva da praticabile e che alla fine veniva issata in verticale come un monolite.