di Gianluigi Mattietti
C’è sempre più musica contemporanea al Festival di Lucerna, che affianca al repertorio classico, romantico e del primo Novecento (oltre a molte incursioni nel barocco, come nell’applauditissimo concerto di Cecilia Bartoli) molta musica di oggi.
Un modello virtuoso, aperto, capace di stimolare la curiosità del pubblico, poco seguito in Italia, soprattutto nei festival estivi, che conservano sempre un taglio piuttosto “balneare”, di puro intrattenimento per vacanzieri. Se la Lucerne Festival Orchestra (LFO) celebrava il suo ventesimo anniversario, con un direttore ospite del calibro di Yannick Nézet-Séguin (magnifica la sue esecuzione dell’Ottava di Bruckner, muscolare ma non martellante, dove tutto scorreva senza fratture, appariva cucito insieme come se ogni tema scaturisse dal precedente, e dove anche i crescendo erano così graduali da risultare naturali, non enfatici, ma pieni e risonanti come gli accordi di un organo), come contraltare c’erano i concerti della Lucerne Festival Contemporary Orchestra (LFCO), orchestra di eccellenza votata alla musica d’oggi e formata da giovani musicisti cresciuti presso la Lucerne Festival Academy (fondata da Pierre Boulez e ora diretta da Wolfgang Rihm). La LFCO ha eseguito alcuni lavori di Enno Poppe, invitato come compositore in residenza e come direttore d’orchestra, e presente con sette sue composizioni che hanno punteggiato l’intera rassegna (tra queste la prima mondiale Blumen, Fett per orchestra, e per i tre grandi cicli per ensemble: Speicher, Rundfunk e Prozession), un pezzo raro e molto impegnativo come Passage/Paysage di Mathias Spahlinger (che è stato diretto dallo stesso Poppe), Su per scheng e orchestra di Unsuk Chin, due prime di David Moliner e Hovik Sardaryan, e, in una formazione più ristretta, anche pezzi di Tania León, Clara lannotta, Lei Liang, Jalalu-Kalvert Nelson.
Molto applaudito in particolare il concerto diretto da Ilan Volkov, con un programma dedicato a George Lewis, Jessie Cox e Peter Ruzicka. Minds in Flux di Lewis (accolta con grande successo già alla sua prima ai Proms di Londra nel 2021) era un pezzo emblematico del linguaggio del compositore americano, un grande affresco per orchestra e elettronica concepito come una sorta di «raffigurazione», dove il suono diventava «immagine», riallacciandosi in questo a una tradizione americana che va da Blind Tom (cui Lewis ha dedicato la sua ultima opera, Song of the Shank) a Charles Ives, a Florence Price. Il percorso musicale era basato su una proliferazione di materiali (o meglio, di “immagini sonore”) molto contrastanti, combinati in maniera sempre diversa, con scarti rapidissimi, estremi di dinamica e di registro, effetti rumoristici, elementi descrittivi e atmosferici: come i pigolii dei legni che si perdevano in lontananza, le dense trame degli ottoni, i giochi di soffi e sbuffi nei fiati e negli archi, i movimenti di glissati simultanei, gli straordinari effetti fruscianti delle percussioni. Il suono dell’orchestra si fondeva poi con l’elettronica, sfruttando 16 microfoni collegati ad altrettanti strumenti dell’orchestra, come una sorta di concertino manipolato da un software, che ne modificava il colore, l’inviluppo dinamico, creava effetti di moltiplicazione (per cui il suono di un solo flauto poteva sembrare quello di uno stormo di uccelli), trasformava il suono degli archi in un fitto brulichio, enfatizzava gesti puramente strumentali (come i pizzicati molto secchi, che diventavano gragnuole scoppiettanti), proiettava il suono attraverso gli otto altoparlanti disposti intorno alla sala. Il risultato era un flusso denso, frenetico, sempre instabile: una materia in continua trasformazione, che pulsava, si rapprendeva, ruggiva, balbettava, come un grande racconto (per Lewis corrispondeva allo stato di un’umanità in balia di un «intenso flusso di emozioni, dalla gioia alla paura»), che scorreva a ruota libera, in modo capriccioso, improvvisativo, facendo emergere l’anima jazzistica di Lewis, e con un carattere rapsodico che svelava la sua tendenza a mettere sempre un po’ troppa carne al fuoco.
Il concerto comprendeva anche un bel lavoro di Jessie Cox, allievo di Lewis alla Columbia University, commissionato dal festival (con il sostegno della Fondazione Siemens), intitolato Schattenspiel. Compositore giovane ma già affermato e con un vasto catalogo al sua attivo, nato a Biel, in Svizzera, da una famiglia con radici a Trinidad e Tobago, attivo in passato come batterista e percussionista, impegnato, come Lewis, nella riscoperta dei compositori afrodiasporici, influenzato dalla corrente artistica dell’afrofuturismo, Cox attinge nella sua musica a esperienze diverse, dall’avanguardia al jazz, alla sound art, mirando a una sorta di musica “creolizzata” che mescoli “razze” musicali diverse (lo scorso anno ha iniziato un progetto con l’Ensemble Modern che lo ha portato in Senegal per collaborare con musicisti locali). Questa pluralità di influenze si coglieva anche in Schattenspiel (gioco di ombre), ispirato al lavoro del pittore afroamericano Sam Gilliam (1933-2022), soprattutto ai suoi celebri dipinti a drappo, che rifiutavano la forma come movimento progressivo e lineare, legato a una relazione possessiva con lo spazio. Si trattava di un pezzo di grande densità armonica, con blocchi di materia dal carattere esplosivo seguiti da echi e risonanze, come ombre («questo pezzo può essere visto come il tetto di una foresta, dove la luce rimbalza sulle foglie in modi diversi, dove l’ombra crea un gioco di colori e di luce diffusa»): sottili fasce di suono che poi si articolavano in intrecci melodici, oppure in trame liquescenti, attraversate da scale e lenti glissati. Completava il programma Spiral di Peter Ruzicka, concerto per quartetto di corni e orchestra composto nel 2013. Le quattro parti solistiche (affidate a quattro eccellenti musicisti: Cécile Muhlmeyer, Pau Riedweg, Sytske Pas, Nausicaa Perniciano) erano in realtà pensate come un unico grande strumento, fuse insieme in una scrittura omofonica, alternando zone di ribattuti pulsanti ad ampie frasi nel registro grave. La grande varietà di colori orchestrali (ottenuti anche sfruttando un vasto set di percussioni), l’eterogeneità delle connotazioni stilistiche (anche con echi tardoromantici e ampie frasi wagneriane), le dense stratificazioni, le frequenti emergenze solistiche, erano però intessute insieme in maniera disordinata e molto artificiosa, con processi che si dilungavano inutilmente. Ma era comunque un interessante tassello nell’ampio mosaico del contemporaneo in musica realizzato al Festival di Lucerna.