Una nuova uscita discografica dedicata alle opere del compositore “goriziano-milanese-parigino”, interpretate dall’ensemble Musiques Nouvelles
di Paolo Tarsi
S embra quasi che Fausto Romitelli (1963-2004), con quell’accelerazione bruciante del suo tempo, come una divinità primigenia del cielo e della terra, un demiurgo al centro di corrispondenze tra echi di suoni, golfi d’ombra e di luce, sia stato punito per aver rubato il fuoco agli dei e averlo donato agli uomini. Lui, che, nel riflesso reiterato delle acque su cui si è specchiato il battello ebbro della musica contemporanea, ha avuto l’ambizione di voler ‘lavorare a farsi veggente’. Anche se più vicino a Jim Morrison che ad Arthur Rimbaud. Un veggente psichedelico e spettrale, tra Syd Barrett e Hugues Dufourt, insomma. Ma anche Jimi Hendrix e Karlheinz Stockhausen, Henri Michaux e Aphex Twin. Meraviglia. Del resto Romitelli è stato autore di un brano – Lost – scritto proprio su un testo del Re Lucertola, anche se è bene sottolineare che «lui non aveva in mente di scimmiottare il pop. Niente fusion». Così ricorda Fausto Romitelli il musicista belga Jean-Luc Plouvier in un’intervista di Mario Gamba contenuta nel libro “Gli ultraterresti. Musiche della rivoluzione globale” (Edizioni Cronopio, 2008), e ancora: «lui non era un ragazzo che aveva frequentato i concertoni rock o i rave party: era un serissimo compositore che li aveva assimilati. E usava citazioni, riferimenti. Come Berio, tanto per fare un esempio”. Poi ecco il colpo di grazia a certe tendenze, che nulla hanno capito: “quando si agisce sostenendo che non ci sono distinzioni tra le varie musiche si finisce per fare cattiva contemporanea “classica”, cattivo rock, cattivo jazz e così via». Niente di più vero.
Questa nuova antologia discografica raccoglie alcuni lavori scritti tra gli anni ’90 e 2000: infallibile la direzione del violoncellista-compositore Jean-Paul Dessy alla guida dell’ampio ensemble Musiques Nouvelles, di cui è anche direttore artistico, e che proprio nel 2012 festeggia i cinquant’anni di attività dedicata alla musica contemporanea.
Romitelli apparteneva a quel nucleo di giovani compositori che gravitavano attorno all’Ircam di Parigi, quando la città era al centro di un nuovo spleen per compositori amanti delle nuove tecnologie, un gruppo di “piccoli Boulez, dei bastardi dell’informatica o dei macinatori di algoritmi, a seconda dei casi, che sono cresciuti e si sono scrollati di dosso i vecchi ruoli”, secondo Jean-Noël von der Weid.
La scrittura di Romitelli è votata all’assoluta precisione del segno, ogni minimo dettaglio, la più impercettibile rarefazione del suono è rigorosamente notata, in una sorta di ridondanza e moltiplicazione delle sovrapposizioni sonore perfettamente scannerizzate sulla partitura. Lo dimostrano brani come la Seconda domenica (2000), dalle due Domeniche alla periferia dell’impero, profondamente diversa dalla prima (dove è richiesto un uso importante dell’elettronica). Questo lavoro, in cui non è previsto alcun tipo di elaborazione informatica, rivela la straordinaria capacità alchemica di Romitelli nel trasformare gli strumenti, ricavando le stesse sonorità sature e distorte, quasi corrotte, che riesce ad ottenere quando usa l’elettronica, o la chitarra elettrica, da strumenti assolutamente acustici. Mentre gli strumenti ad arco suonano sempre col legno fino ad ottenere una distorsione del suono, con effetti quasi di feedback elettronico, il flautista suona anche un accordatore per chitarra, mentre al clarinettista è richiesto di suonare il kazoo e un’armonica a bocca tutta rigorosamente fasciata, tranne che su due soli fori, per facilitare l’emissione di due sole note: ‘fa’ e ‘mi’. Ma soprattutto è il titolo a colpire. «Un titolo che potrebbe essere il titolo di un romanzo, di un film o di un quadro», afferma Filippo Del Corno in un’intervista. «Immediatamente attrae la nostra attenzione perché cerchiamo di capire dove potrebbe essere oggi la periferia dell’impero [in questo momento, nel maggio 2012, non è poi così difficile immaginarlo, NdA], e soprattutto cosa accade una domenica alla periferia dell’impero».
Altri lavori, come The Nameless City (1997), per orchestra d’archi e campana ad libitum, ispirato all’omonimo racconto del 1921 di H.P. Lovecraft, trovano nell’orchestrazione, uno strumento della tradizione difficilmente malleabile, un suono di ispirazione non colta, cercando di analizzare il materiale sonoro da un punto di vista acustico, creando distorsioni del tutto simili a quelle di un basso o di una chitarra elettrica. In Flowing down too slow (2001) e Amok Koma (2001), invece, i campionatori si fondono in un continuum con la texture della strumentazione, in una musica in cui gli strumenti acustici suonano come quelli elettronici e viceversa, tra le interferenze di un materiale sonoro pre-campionato di varia provenienza e ulteriormente manipolato. Presente in questa registrazione anche uno dei primissimi lavori di Romitelli, Nell’alto dei giorni immobili (1990) che, con la sua ‘progressione di spettri’, cronologicamente si colloca tra la realizzazione del ciclo Les Espaces Acoustiques e Vortex Temporum di Gérard Grisey.
“Il compositore goriziano-milanese-parigino” – concludendo con le parole di Mario Gamba – “entra nell’olimpo degli eroi maledetti, estremi, visionari, della musica contemporanea “colta”. Le idee, la vita (dissipatrice, “fino all’ultimo respiro”), i lavori musicali di Romitelli lo avvicinano all’aura che si respira intorno alla memoria di un Jim Morrison o di un Kurt Cobain. Forse Demetrio Stratos gli si potrebbe accostare più propriamente, condivide con Romitelli l’idea che occorre agire con rigore, con fatica di ricercatori, con completezza di compositori, nel campo aperto di una musica che rompa o cerchi di rompere i suoi legami con l’accademismo, con il dogmatismo, con i formulari, per quanto “d’avanguardia” essi siano”.
Fausto Romitelli, The Nameless City, Musiques Nouvelles, Cypres 2012
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