di Luca Chierici
La ripresa del dittico Cavalleria-Pagliacci alla Scala ha riservato al pubblico diverse, inaspettate sorprese. Innanzitutto è stato istruttivo digerire gli aspetti più inquietanti dell’impianto di Martone e Tramonti, che tanto avevano scandalizzato i benpensanti in occasione delle recite di quattro anni fa e che continuano in parte a sovvertire i parametri tradizionalmente considerati negli allestimenti classici delle due opere. Le scene spoglie e geometriche, i movimenti ridotti nella parte introduttiva del lavoro di Mascagni sono sembrati reggere a fatica l’iniziale approccio lirico e meditativo di Carlo Rizzi, che solamente in seguito ha assecondato l’incalzare degli avvenimenti con l’impeto necessario che si conviene alla novella di Verga e alla incandescente partitura.
Sicuramente più indovinata è l’attualizzazione del contesto nel caso di Pagliacci, intervento registico e scenografico che avrebbe dovuto forse suggerire la ricerca di nuovi effetti nella lettura del testo. È certo che la presenza di Daniel Harding abbia rappresentato nel 2011 una scelta più in linea con la modernità della regia e delle scene, ma non è detto che per forza di cose quella scelta fosse stata propizia a una resa più illuminante rispetto a quelle tradizionali. Se dal punto di vista drammaturgico Cavalleria e Pagliacci si possono prestare alla proiezione di sentimenti e azioni vecchi come il mondo in contesti attualizzati, ciò non significa che due partiture (soprattutto la seconda) estremamente legate al loro tempo debbano per forza essere oggetto di una tentata trasformazione che nella maggior parte dei casi toglie qualcosa piuttosto che aggiungere. Fortunatamente, e lo diciamo senza paura di essere travisati, sia la concertazione di Rizzi, sia soprattutto il felice protagonismo di interpreti vocali di tutto rispetto, hanno indirizzato lo spettacolo su binari se vogliamo più prevedibili ma anche più appetibili per il pubblico formato in gran parte da stranieri che popolano la città in questo periodo espositivo-universale.
Interpreti esemplari, con la sola eccezione di una Mamma Lucia diciamo così un poco logorata, hanno attenuato le polemiche insorte dopo la rinuncia da parte di Kaufmann e della Garanča a partecipare a queste recite. Violeta Urmana ha ancora una volta dimostrato come il camminare nel solco della tradizione e allo stesso tempo esibire doti vocali tuttora ragguardevoli porti a un successo non scontato e a risultati tutto sommato apprezzabili. Di notevole impatto scenico-vocale è risultata la presenza di Stefano La Colla e di Marco Vratogna, quest’ultimo anche ottimo Tonio nel secondo titolo. Non disprezzabile come Lola, anche se un poco spaesata, il mezzosoprano Oksana Volkova. Fiorenza Cedolins ha onorato come si conviene il ruolo di Nedda, ricordando un poco la presenza scenica della Kabaiwanska di un tempo, Juan José de León ha arricchito il proprio ruolo di una giovanile spensieratezza che contrasta assai con le tinte fosche del dramma. Marco Berti è fin troppo aderente a una tradizione interpretativa troppo scontata e non è esente da cadute di gusto qualche volta non esattamente apprezzabili. Troppo compassato, anche se lodevole dal punto di vista strettamente vocale, il Silvio di Simone Piazzola. Bravissimi e giustamente applauditi i mimi che hanno magnificamente illustrato il contesto circense nel quale è calata la regia di Martone. Così come applauditissimo è stato il Coro, cui viene richiesto in questa produzione uno sforzo non indifferente atto ad assolvere i compiti vocali e quelli imposti dal regista.