di Luca Chierici foto © Maria Staggat
Per la sua tournée invernale (ha suonato questo programma già due giorni dopo a Parigi) Beatrice Rana ha presentato alla Società dei Concerti di Milano un impaginato molto interessante che prende spunto dal carattere “sinfonico” delle pagine scelte. In realtà il termine “sinfonico” legato agli Studi op.13 di Schumann potrebbe essere letto in maniera più complessa: “insieme di suoni” dall’etimologia greca non significa esclusivamente un rimando all’orchestrazione, ma anche la commistione tra diversi piani sonori che è propria della scrittura di quasi tutti i numeri che vanno a comporre il capolavoro schumanniano, qui scelto nella versione “definitiva” del 1852. Ricordiamo anche che con il termine “sinfonico” si fa riferimento oltretutto alle possibilità di incremento del volume sonoro da parte dei pianoforti che incominciavano a essere costruiti negli anni ’30 del secolo scorso, e alle possibilità di differenziazione timbrica che portavano a una conseguente differenziazione polifonica (quindi sinfonica, ancora nel senso etimologico del termine). La storia di questo importantissimo lavoro del catalogo schumanniano è piuttosto complicata, ma vale la pensa di riprenderla qui come interessante (spero) digressione.
Alla base dell’opera 13 vi è infatti un lunghissimo periodo di gestazione: caso unico nel catalogo del compositore, parliamo di un lavoro pensato nel 1834 e più volte rielaborato fino ad arrivare alla versione scelta in questo caso da Beatrice Rana. Un tema con variazioni era stato inviato a Schumann dal Barone von Fricken, padre di Ernestine, una giovane fanciulla che rappresentava allora l’interesse più vivo del ventiquattrenne Robert in campo sentimentale. Ernestine era dunque al centro dell’attenzione: ce ne accorgiamo nel Carnaval (1835), dove alla piccola Clara Wieck (Robert stava in quel periodo già studiando con il futuro suocero, padre di Clara) viene riservato un posticino in Chiarina, mentre tutto il complesso dell’opera è esplicitamente basato sulle traslitterazione musicale del nome del paese di provenienza dei Fricken, secondo quel gusto crittografico proprio del comporre schumanniano. Il tema inviato dal padre di Ernestine non poteva dunque passare sotto silenzio, sia per motivi di convenienza, sia per la curiosità di Schumann nei riguardi di una possibile serie di Studi o Variazioni sul tema stesso. Il compositore risponde immediatamente al Barone con una minuziosa analisi del lavoro, non priva di critiche piuttosto severe, e con l’annuncio di avere egli stesso scritto una serie di variazioni sulla medesima idea. Queste Variations Pathétiques rimasero dapprima incompiute, fino a quando Schumann non trovò il modo di risolvere il finale prendendo a prestito due temi tratti da un’opera di Marschner, Il Templare e l’Ebrea. Una ulteriore, inedita versione delle variazioni, intitolata Fantasies et Finale è datata 1835 e ancora dedicata a Ernestine. Ma il nome della ragazza di lì a poco scompare, sia perché Schumann si era reso conto di avere preso un abbaglio, sia perché costei non era neppure baronessina, bensì figlia legittimata della moglie del Barone.
Nel 1837 compare a Vienna la prima edizione a stampa dell’opera (Etudes symphoniques op.13), comprendente il tema leggermente modificato, undici variazioni e il Finale. Cinque delle variazioni presenti nella versione 1834-35 erano state omesse e verranno recuperate da Brahms nel 1883. La dedica di questa versione 1837 riporta il nome dell’amico musicista inglese William Sterndale Bennet, al quale il Finale dell’opera si riallaccia in quanto le parole di uno dei due temi di Marschner “Rallegrati, fiera Inghilterra” costituiscono un nuovo crittografico messaggio nei confronti di Bennet, destinato secondo Schumann a risollevare le sorti della musica nazionale britannica. Nel 1852 Schumann riprende in mano gli Studi sinfonici, apporta dei tagli al Finale, omette gli studi nn.3 e 8 e ripubblica il tutto sotto il nome di Etudes en forme de variations, ritornando così in un certo senso al significato delle inedite Variations Pathétiques del 1834. La complicatissima vicenda e le numerose versioni esistenti fecero sì che per lungo tempo i pianisti si assestassero su una versione ibrida che teneva essenzialmente conto della versione 1852 con l’aggiunta dei due studi omessi. Il Finale nella versione 1837 fu pochissimo eseguito e ripreso, tra i nomi più noti, solamente da Rubinstein e da Pollini. Già dai tempi della storica incisione di Cortot si ripropose poi il problema dell’aggiunta delle cinque variazioni pubblicate postume da Brahms. In questo senso i vari interpreti si sbizzarrirono nell’inserimento di queste variazioni nel contesto della versione 1852 e oggi l’audiofilo può ascoltare, oltre alla già citata incisione di Cortot, le differenti combinazioni proposte ad esempio da Richter, Pollini, Arrau. Sta di fatto che generalmente la tendenza odierna è quella di mantenere le cinque variazioni postume, che rappresentano una specie di sguardo avveniristico di Schumann verso la musica pianistica del futuro, anche se il loro inserimento provoca una specie di discontinuità nel fluire delle undici variazioni (o studi) che mantengono nel loro insieme un evidente carattere di unitarietà, sottolineato in tal senso dall’esecuzione che abbiamo ascoltato l’altra sera in Conservatorio.
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L’approccio di Beatrice Rana al repertorio comunemente definito “romantico” smonta spesso quelle poche certezze che ancorano l’ascoltatore a un certo modo di intendere il fraseggio. Il discorso è molto complesso e apre squarci di meditazione non facili da affrontare: può un interprete leggere un testo seguendo solamente le indicazioni presenti sullo spartito e ignorando tutta una tradizione di letture condotte secondo una semantica, un modo di sentire, comuni a generazioni e generazioni di esecutori? No, a mio parere, anche se questa posizione non si abbarbica disperatamente a un concetto di “tradizione” già messo in crisi così tante volte, a partire dalla famosa definizione toscaniniana. In altre parole, il fraseggio che sta alla base di una composizione musicale (come di un testo poetico) segue delle macro-regole che si riferiscono al modo di pensare il linguaggio tipico dell’epoca in cui il testo stesso è stato concepito. Ora, avevamo già notato tempo fa come Beatrice Rana, se da un lato rispettava il “tactus” barocco delle Variazioni Goldberg, tendesse a proporre una visione molto più neutra di certi importanti lavori romantici come la Sonata in si minore di Liszt. Cosa fa Beatrice Rana? In maniera non certo casuale, ne siamo certi e ce lo ha confermato la stessa pianista, cerca di rileggere il testo romantico – nella fattispecie parliamo dello Schumann del Blumenstück eseguito come introduzione agli Studi sinfonici – basandosi quasi esclusivamente sulle indicazioni testuali. E a dire il vero le variazioni di tactus esistono ancora, ma collocate spesso in punti diversi da quelli tradizionali.
Nei Miroirs di Ravel che aprivano la seconda parte del programma l’atteggiamento cambia e a fronte di una lettura di stupefacente esattezza nel rispetto del segno della difficilissima scrittura raveliana, la componente virtuosistica viene riconosciuta come tale ed eseguita quasi secondo i parametri che regolano per tradizione un modo di sentire che molti musicologi hanno riconosciuto essere derivato da certi atteggiamenti lisztiani. Non a caso Miroirs si è rivelato l’epicentro del programma della serata e la parte che meglio ha illustrato l’arte e la bravura della pianista. E che dire della bella (ma non magnifica) trascrizione di Agosti del finale dell’Uccello di fuoco di Stravinskij? Anche in quel caso il fraseggio ha una sua precisa ragion d’essere e l’esecuzione della Rana ci è parsa a tratti troppo legata agli aspetti metronomici del segno, evitando coinvolgimenti emotivi che potessero favorire certi lati tradizionalmente associati, che so, alla splendida e trionfale ricapitolazione del motivo principale nella parte conclusiva. Aggiungiamo il fatto che quella di Agosti può essere vista come trascrizione che diventa una pagina pianistica a se stante, oppure come elaborazione del testo sinfonico originale e come tale da eseguirsi come un direttore potrebbe fare dal podio, o ancora come saggia commistione tra le due ipotesi. Beatrice Rana mi sembra propendere più verso la prima definizione, come del resto fece Pollini per i tre movimenti da Petruška (mentre Rubinstein e Cherkassky intendevano quella trascrizione più come evocazione dell’originale sinfonico). Beatrice Rana ha in ogni caso riscosso un grande successo, come del resto è oramai consuetudine per questa pianista talentuosissima e a suo modo innovativa, compensando il pubblico con due bis, tra i quali una travolgente esecuzione della Toccata da Pour le piano di Debussy.