di Attilio Piovano foto © Juzzolo
Ha esattamente cento anni, la Oslo Philharmonic Orchestra, essendosi formata nel 1919, e non li dimostra. A Torino era già giunta, parecchi anni fa, invitata dalla direzione artistica di Lingotto Musica e ne avevamo ricavata una straordinaria impressione. Riapparsa sul palco dell’Auditorium ‘Agnelli’ di via Nizza la sera di domenica 20 ottobre 2019, per ‘aprire’ la stagione 2019-20 dei Concerti del Lingotto, ha riportato uno straordinario successo. Un concerto a dir poco memorabile, quello diretto da Vasily Petrenko, alla guida di una formazione che ha prime parti di altissimo livello, potenza sonora da vendere, bel suono, straordinaria coesione e capacità di regalare emozioni come le migliori formazioni di livello mondiale. Merito di Petrenko, certamente, cha ha inaugurato il bel programma nel segno di Strauss.
Ecco allora uno slanciato Don Juan, energetico ed esuberante, come raramente accade di ascoltare; e subito ad imporsi quelle sfolgoranti accensioni che del poema sinfonico straussiano costituiscono una delle più caratteristiche cifre, momenti caratterizzati da una sorta di incredibile ‘onda d’urto’ sonora (così nelle prime file) che – se proposti da formazioni meno esperte – avrebbero rischiato di venire etichettati senz’altro come eccessivamente fragorosi (se non addirittura ‘fracassoni’); ma con un complesso di gran classe del valore della Oslo Philharmonic Orchestra anche i fortissimi più esacerbati mantengono una bellezza sonora davvero unica ed esaltante. Ottimi gli ottoni, per luminescenza e possanza, legni coesi ed omogenei, bella e gradevolissima la pasta degli archi, scattanti dove occorre, ma anche docili e duttili nell’accarezzare i passi più delicati ed intimisti, sicché – per contro – i passaggi sfolgoranti risultano ancora più ricchi di appeal: giù giù, attraverso le svariate e policrome immagini concepite dall’appena ventiquattrenne Strauss, già padrone di se stesso e maestro dell’orchestrazione, sino alla conclusione funerea e plumbea, a delineare la morte del famigerato e leggendario libertino, protagonista del romanzo di Lenau al quale Strauss si ispira. Una vera lezione di stile, quella di Petrenko, dal gesto incisivo ed efficace, mai fine a se stesso, nel mostrare la saldezza formale di una pagina ‘vitalistica’, a tratti ‘torrenziale’ se non addirittura debordante; pagina che, se eseguita con tale brio e nervosismo ritmico (e peraltro somma attenzione ai dettagli sul côté lirico, struggente se non nostalgico), convince appieno lasciando attoniti.
Poi ecco fare la sua comparsa il pianista norvegese Leif Ove Andsnes che a Torino – occorre dire del tutto meritatamente (e ancora grazie al Lingotto) – conta una schiera di entusiasti fans. Attese per nulla deluse, al contrario, pubblico alle stelle dopo un’esecuzione magistrale del pur obsoleto, ma sempre piacevole Concerto di Grieg dal coreografico esordio, quasi teatrale; con quelle sue assonanze schumanniane, certi tratti turgidi quasi memori di Liszt, ma anche una sua cifra specifica che profuma di fiordi e melodie popolari. Andsnes lo affronta con una carica giovanile che lascia stupiti. La sua precisione tecnica è impeccabile, così come il volume sonoro che riesce a sprigionare dal grancoda opponendosi alla ‘massa’ orchestrale, senza mai cedere nell’effetto ‘pestato’, insomma mantenendo una qualità timbrica di alto livello. Il pianista norvegese dall’ormai vasta carriera internazionale è in grado di sfoderare peraltro cantabili di indicibile bellezza (così nel poetico tempo lento, rapsodiante come di improvvisazione) cogliendo con efficacia e grande eleganza anche quei tratti capricciosi, a modo loro venati di humour, sì da far emergere il Concerto stesso come rigenerato, rendendo ancora più magici i tratti fiabeschi ed attenuando quel tanto di retorico che nella pagina invero non manca (i passaggi a mani uguali con le ottave lisztiane, nella cadenza, così serrate che il pianoforte pare ruggire). Perfino nel finale che, con i suoi ritmi scattanti ed il suo andamento nervoso come lo shakespeareano Puck o al pari di una ridda di elfi nordici, è forse la parte più prevedibile e irrimediabilmente datata del Concerto, Andsnes è riuscito a far ammirare la partitura, quasi la si ascoltasse per la prima volta. Quanta poesia in quel passo col flauto solista che pare schizzato fuori dal Peer Gynt e addirittura accettabile la lunga ed enfatica perorazione che concede molto più del dovuto all’effettismo. Perfetta l’intesa con l’orchestra – merito fifty/fifty di solista e direttore – e successo personale per entrambi; agli applausi scroscianti Andsnes ha volentieri risposto interpretando il delizioso Gangar ancora di Grieg dai Pezzi lirici ( è l’op. 54 n. 2) e ribadendo – se pure ce ne fosse stato bisogno – la nitidezza perlacea del suo tocco (nel passo a carillon come nella celeberrima Marcia dei nani op. 54 n. 3) e una sicurezza che ha del prodigioso.
Da ultimo un’interpretazione da manuale della sublime Decima di Šostakovič che vide la luce nel 1953: l’anno della morte di Stalin col quale Dmitrij ebbe sempre un contrastato rapporto. Enormi emozioni già nel vasto Moderato iniziale dalla magnifica curva espressiva, con le sue cupezze e le sue tetraggini, ma anche dai temi impregnati di seducente orientalismo: che Petrenko ha centellinato con un certosino lavoro di concertazione. Poi ecco il lancinante Allegro dallo scatto fulmineo, come una vitalistica corsa a briglie sciolte dell’intera orchestra; Petrenko ne ha colto tutta la carica demoniaca, tutto il sinistro vitalismo, grottesco e tragico al tempo stesso. E dopo l’Allegretto, in apparenza neoclassico, ma in realtà interpuntato di acidule sonorità, l’enigmatico Finale concluso da una marcia a prima vista ottimistica e solare: di fatto ancora un sublime gesto di mascheramento da parte del sornione e lucidissimo Šostakovič, vero tour de force per ogni compagine sinfonica, di fronte al quale Petrenko e la Oslo Philharmonic sono parsi perfettamente a loro agio, come navigando con sicurezza in acque territoriali del tutto cognite. Una sonante ovazione a fine serata e ben due bis orchestrali: di Grieg (a chiudere idealmente il cerchio) la scoppiettante e ironica Danza norvegese op. 35 n. 2 (dall’originale per pianoforte a quattro mani) e infine lo spettacolare Gopak di Aram Khachaturian (da Gayaneh, suite n. 3).