di Luca Chierici
Alexandre Kantorow, figlio d’arte (il padre è il grande violinista Jean-Jacques), ha oggi ventiquattro anni e ha vinto nel 2019 il primo premio al Concorso Čajkovskij di Mosca. Ha studiato con grandi maestri (Volondat, Lazko, Braley, Shereshevskaya) e sta intraprendendo una carriera ai massimi livelli in tutto il mondo.
Bene ha fatto la Società del Quartetto di Milano a invitarlo perché la serata ci ha permesso di valutare al meglio le qualità di un pianista di prima classe, che sa il fatto suo, si impone con un rapporto con il pubblico molto ben calcolato ma che allo stesso tempo sembra del tutto naturale. Il suo approccio alla tastiera è anch’esso un mix di libertà e di controllo, ossia i due ingredienti che sembrano essere indispensabili per conquistare le ardue cime di una professione che oggi sta attraversando un momento di indubbia crisi: non ancora pronti – solisti e pubblico – per dedicarsi a (o ascoltare) un repertorio più focalizzato sulla musica del Novecento, ambedue rischiano di portare avanti un rito che oramai sta esaurendo le proprie valenze.
È stato meraviglioso ascoltare Kantorow mettere in atto doti magnifiche di controllo del suono, dispiegare un virtuosismo esaltante nei passaggi più perigliosi di un programma assai difficile, ma l’ascoltatore impegnato in una analisi del pianismo degli ultimi cinquant’anni non ha potuto fare a meno di notare spesso una immedesimazione del giovane non nei confronti del repertorio in sé quanto dell’idea che di questo repertorio abbiamo potuto mettere a fuoco in base agli esempi del concertismo militante di alcuni già leggendari predecessori. Non so quanto la Prima sonata di Schumann sarebbe potuta uscire dalle mani di Kantorow se non fosse esistito l’esempio di un Pollini, seguito quasi alla lettera, o quanto la scelta del Liszt di apertura possa essere debitore nei confronti dell’ultima, sibillina incisione di Horowitz per la Sony. Horowitz aveva scelto il breve e pure intensissimo Preludio sul frammento bachiano dalla Cantata Weinen, Klagen (1859) anche per non imbattersi nella virtuosistica composizione in forma di variazioni, che Liszt aveva messo a punto solo qualche anno più tardi (1862) e poi ancora riversata sull’organo. La versione 1862 era stata ripescata da virtuosi come Brendel, Ciani, Oppitz e ha indubbiamente una portata concertistica ben più impressionante di quella del Preludio precedente, proposto da Kantorow.
E ancora a Horowitz veniva spontaneo pensare nel caso del diabolico Vers la flamme, delirio skriabiniano che ha trovato purtuttavia in Kantorow un interprete d’elezione. Dove il pianista ha convinto di più, però, non è stato neanche nella Lugubre gondola n.2, canto straziante di Liszt in morte di Wagner, del quale Pollini sceglieva la prima versione più prosciugata, bensì nella Dante-Sonata che conclude il secondo album delle Annèes de Pélèrinage. Qui il giovane francese ha dato sfogo alla propria immaginazione in una lettura vibrante e piena di fuoco.
Due i bis, la seconda delle Ballate op. 10 di Brahms, e la chiusura dell’Oiseaux de feu di Stravinskij debitrice della trascrizione di Guido Agosti. Pezzo che era davvero scomparso dal repertorio e che negli ultimi anni viene proposto sempre più spesso, anche con la cattiva scelta di enuclearne solamente la fase finale, piena di contrasti di suono: l’integrità del lavoro originale non si merita questa sorte. Grande successo di pubblico in una sala riempita poco più della metà.