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L’Italia è da sempre il paese delle divisioni. Da una parte o dall’altra, con Muti o con Abbado, Pollini o Michelangeli, le avanguardie o la melodia. Possibile?
Perché alcuni compositori italiani -vedi la generazione dell’Ottanta ma non solo- a un certo punto siano entrati nell’oblio non è mistero ma neanche una certezza assoluta. E’ una di quelle cose su cui si continuerà a discutere fino a quando non ci sarà più un alito di respiro, nei polmoni; e come spesso accade, con tifoserie opposte che se le cantano e se le suonano per bene.
Lo spunto per ri-parlarne l’ha data una delle ultime operazioni artistico-musicali di Riccardo Muti, che in una recente incisione (targata Emi) ripropone i lavori di Ottorino Respighi: a parte i suoi intramontabili “Pini”, dal dopoguerra in poi poco eseguito. Ma occasioni per dibattere giungono pure da case editrici che punta no alla riscoperta del suddetto periodo, dei non pochi commenti che si trovano nel mare magnum del web e dalle scelte di certi compositori vivi e vegeti che si muovono sulle orme di quei “vecchi” maestri. Si può parlare dunque della riscossa dei tifosi dell’Ottanta? Per cominciare, una po’ di storia in micro-pillole che serve a rinfrescare la memoria.
Estimatore di Respighi a suo tempo, era nientemeno che Arturo Toscanini che alle prese con la preparazione delle “Fontane di Roma” ai suoi musicisti diceva: quell’autore sa “scrivere bene”. Ma passata la festa e l’entusiasmo gabbato lo santo e così del buon Ottorino & Co. a mano a mano si sono perse le tracce. Dopo il secondo conflitto mondiale, ha preso piede l’avanguardia di Darmstadt, e da noi –tra gli altri – Berio, Maderna, Nono. Che con la loro avanzata hanno cambiato i connotati alla nostra musica. E loro, i ragazzi del 1880 e dintorni che si erano (appena) battuti per un primo rinnovamento. Medaglie? Studi? Esecuzioni per non dimenticare?
E qui, iniziano le ostilità tra le opposte curve, per usare lo slang calcistico. I tifosi del cambiamento dolce, all’italiana – ovvero “respighiani” e “malipieriani” – sostengono che i personaggi impegnati alla Nono “hanno ceduto il loro talento più alla politica che alla ricerca di un’espressione artistica”; tra l’altro con dei risultati che hanno rappresentato “la crisi totale della composizione che ancora annaspa alla ricerca di qualche cosa che forse non c’è…”. I tifosi dell’Avanguardia storica – serialisti e affini – invece, che ormai vivono anch’essi assediati da un nuovo che si trasforma in continuazione, si difendono ricordando uno dei meriti fondamentali dello “strappo” epocale: “Aver traghettato l’universo mondo italico in una dimensione che la patria del belcanto non si sarebbe neanche sognata”.
Dibatti a parte alla fine come al bar il cliente ha sempre ragione. O quasi. E così, all’improvviso, sugli scaffali, a cura di edizioni piccole ma specializzatissime e ricercate, si trovano titoli dei Signori dell’80; al tempo stesso la Biennale Musica di Venezia riserva uno dei suoi Leoni alla Carriera al maestro milanese Giacomo Manzoni (solo quattro anni fa), che del mondo della ricerca strong fu ed è ancora araldo. Un colpo al cerchio e un colpo alla botte, insomma. Come a dire, che nella Babele della post-modernità alla fine a parole e in musica c’è posto per tutti.
Luca Pavanel
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